Salvador Dalì

Salvador Dalì

Con Salvador Dalì usciamo dall’immediata filiazione dechirichiana. Non è che manchino in Dalì le citazioni da De Chirico; troviamo in alcune sue pitture accenni ai manichini, senza contare il fatto che l’adozione di questi grandi piani bruciati dal sole del meriggio sono di matrice dechirichiana. Dalì però non scopre De Chirico, quando arriva nel gruppo surrealista l’influenza dechirichiana ha già fatto storia e ha già influenzato autori come Tanguy o Ernst, a cui Dalì si rifà più direttamente. Dalì è un eccellente copiatore, ma non è mai pedissequo, è troppo amante del virtuosismo per esserlo. In effetti egli dispone della più eccellente abilità pittorica tra tutti i pittori analizzati fin ora e questo ha un particolare rilievo in quanto Dalì come De Chirico si riproponeva di risollevare le sorti della pittura proprio penetrando all’interno di uno di quei movimenti d’avanguardia che l’avevano incrinate. Dalì è anche un artista eccentrico ed egocentrico smanioso di farsi notare, egli riprende gli stilemi in uso di maggior successo e li esaspera in senso virtuosistico in modo da renderli appariscenti. E’ anche per questo quindi che il suo modo di dipingere ha tanto in comune con le tecniche dell’illustrazione pubblicitaria, la quale tende sempre all’effetto e all’iperrealismo. Il rapporto di Dalì con il classico si pone su due binari molto differenti tra loro a seconda che si intenda il classico come classicismo accademico e il classico come grecità. Dalì aspirava a diventare un classico e amava i classici della pittura spagnola, in particolar modo Velasquez. Il problema sta però nel fatto che quelli che gli erano stati trasmessi come dei classici negli studi artistici non sono imparentati con la rinascita della cultura ellenistico-romana. I classici dell’arte spagnola inseguono un realismo che ha inficiato tutta la tradizione spagnola sia nel senso della concretezza, come nel cubismo picassiano, sia nel senso del virtuosismo, stabilendo una tradizione che va dal barocco fino appunto a Dalì. Dalì quindi è un avanguardista di maniera e la sua formazione accademica lo porta a una sperimentazione che può essere letta anche come un tentativo di riportare ogni trasgressione all’interno della “bella” pittura. Per quanto riguarda il classico come tradizione greco-romana troviamo un solo caso importante in cui egli vi fa esplicitamente ricorso ed è ancora una volta a proposito della citatissima Venere di Milo. Egli realizza una scultura con un calco della Venere in cui vengono posti tanti cassetti. Qui ci possiamo accorgere come la tradizione antica sia del tutto distante da Dalì. In quest’opera, intitolata La Venere a cassetti, Dalì è interessato solo a prendere la statua classica come modello astratto della donna occidentale. La Venere è quindi poco più che un ideogramma, un simbolo convenzionale completamente svuotato di un senso proprio. Essa è solo l’oggetto noto alla massa, il souvenir da turista, che viene usato per fare un discorso sulla psicoanalisi, così come Freud l’ha fatto con Edipo, senza che però ci sia qui nessun particolare riferimento libresco. Il discorso che vuole fare Dalì servendosi dei cassetti riguarda una sorta di commento alla teoria freudiana nel suo complesso. «L’unica differenza tra la Grecia immortale e l’epoca contemporanea – scrive lo stesso Dalì – è costituita da Sigmund Freud, il quale ha scoperto che il corpo umano, puramente neoplatonico all’epoca dei Greci, è oggi pieno di cassetti segreti che soltanto lo psicanalista è in grado di aprire» .