Giulio Paolini
Giulio Paolini è nato a Genova ma si è presto trasferito a Torino. Anche lui, come Kounellis, ha iniziato la sua attività artistica nella seconda metà degli anni Cinquanta, influenzato dall’informale. La sua poetica però è decisamente diversa da quella del suo collega greco. Egli non ama particolarmente l’informale materico, ma all’opposto propende per le esperienze più intellettuali e mentalistiche. Infatti si rivolge dapprima a una pittura quasi monocroma fino ai primi anni Sessanta, quando comincia a introdurre l’impiego della fotografia. Giunge così a una prima svolta intorno al ’65 quando realizza una serie di opere sulla dialettica tra spazio percepito e soggetto percettore in relazione allo spazio della rappresentazione. Il suo lavoro acquista così fin da subito una portata speculativa che va nella stessa direzione delle ricerche concettuali che venivano svolte in quello stesso periodo dall’altra parte dell’oceano. In un suo libro, intitolato Idem, Paolini traccia una specie di anamnesi artistica, descrivendo lo sviluppo storico delle sue opere come tappe di un coerente sviluppo teorico. Questa è almeno l’impressione che si ricava dalle pagine dell’introduzione, scritte da un critico di eccezione, Italo Calvino, il quale ci racconta le varie fasi come se fosse una storia chiara e scorrevole, senza incertezze, né passi indietro. La storia incomincia dalla tela su cui si tracciano le semplici diagonali per individuarne il centro. Quelle diagonali sono già l’anticipazione della gabbia prospettica e perciò non sono qualcosa di ininfluente e neutrale. Esse costituiscono un elemento condizionante e quindi vanno esposte di per sé, vanno sottoposte allo sguardo critico del pubblico o come direbbe Calvino vanno messe garbatamente tra parentesi, “perché non si credano d’essere chissà cosa neppure loro” . Il passo successivo è stato quello di collocare una tela bianca, in modo da avvertirne il distacco dal telaio. Anche qui si critica un altro presupposto della pittura che viene dato per scontato e che va a costituire la forma “ideologica” in cui noi pensiamo lo spazio della rappresentazione. “La tela – scrive sempre Calvino – fa parte del quadro, ma non è il quadro” . La tappa successiva di questo itinerario di critica agli assunti dello spazio del quadro è costituita dal colore. Paolini affronta questo tema con due opere. In una si vede un barattolo incellofanato e disposto al centro del telaio e nel secondo, affinché non si creda di voler parlare solo di un colore, ma del colore in senso generale, l’artista genovese prende un campionario di colori e lo espone sempre incellofanato nello spazio del telaio. A questo punto però è venuto il momento di mettere sotto accusa il telaio stesso. Così in un’opera del 1962 Paolini presenta il retro di un quadro intelaiato al cui interno c’è un altro telaio e un altro ancora come in un gioco di scatole cinesi. Ora, chiariti i presupposti fisici, l’artista può tornare a dedicarsi alla critica dei presupposti prospettico-gemetrici che inficiano la concezione dello spazio della rappresentazione. Questa volta l’oggetto della critica non è il centro prospettico del quadro, ma la quadrettatura della superficie, che trasforma uno spazio “aperto” in un spazio circoscrivibile, descrivibile razionalmente e misurabile. Ma chi è l’operatore di questa parcellizzazione, se non l’uomo? E’ all’uomo, al soggetto percepente, il soggetto agente nell’azione e accogliente nella percezione che si riferisce il centro prospettico del quadro. E’ in linea con i suoi occhi che viene stabilito il piano dell’orizzonte. Ecco allora che l’uomo, come soggetto, fa il suo ingresso in questa analisi dello spazio della rappresentazione eseguito dall’artista. Nel 1963 realizza un’opera intitolata Orizzontale in cui c’è un quadro all’interno del quale sta rappresentato un uomo assolutamente anonimo (l’illustrazione è tratta da un libro di anatomia) con una striscia orizzontale che attraversa lo spazio della tela posta all’altezza degli occhi, stante ad indicare appunto la linea d’orizzonte. Il portare l’attenzione sul soggetto giunge al culmine nella famosa opera Giovane che guarda Lorenzo Lotto nel quale attraverso il semplice cambiamento del titolo si rovescia il cannocchiale della percezione. Non è certo appropriato a questa sede il compito di scandagliare tutta la produzione “analitica” di Paolini, dato che a noi qui interessa il suo rapporto col classico, un rapporto questo che è pressoché assente nelle prime opere dell’artista, a meno che non si voglia definire classica la divisione della tela con le diagonali o con la quadrettatura. In un secondo momento i riferimenti al classico divengono comunque espliciti e inequivocabili. E’ quell’uso dell’antico che si deve spiegare, ma per spiegarlo abbiamo bisogno di capire qual è l’impronta fondamentale della sua ricerca. Solo così potremo distinguere il suo approccio da quello degli altri artisti a lui coevi. Bastano infatti queste poche premesse per capire che Paolini non fa un uso lirico del classico, o che il classico per lui non è l’oggetto logoro e abusato del turismo da museo che va ridotto a vago simbolo della concezione occidentale dell’arte. Paolini ritrova il classico nella storia dell’arte e quindi l’uso del classico è funzionale alla sua critica dei pregiudizi estetici dello spettatore (ma anche dell’artista) che si avvicina alla tela o comunque all’opera scultorea. Nell’esame analitico condotto dall’artista i primi a essere presi in considerazione sono i classicismi della modernità, solo più tardi, si arriva all’antichità. Dentro questo gioco di rimandi con il passato affiora un atteggiamento citazionista, freddo, formale in cui il reperto o meglio la copia del reperto hanno un senso legato esclusivamente al loro ruolo nel grande teatro della storia dell’arte. Questo aspetto, che è all’inizio rigorosamente funzionale, finisce col cedere terreno a qualche tentazione estetizzante. Tuttavia anche quando indugia nell’estetica la connotazione dominante è quella del classico visto come forma espressiva tipica della cultura moderna e del suo stesso riferirsi al passato. Dunque potremmo concludere dicendo che Paolini per certi versi è il più freddo e rigoroso dei citazionisti; che in questa citazione l’oggetto classico viene abbassato a ready-made, anche, che pur in tale situazione il classico per freddo che possa risultare (e forse anche per quella sensazione di ordine e di garbo che trasmette) continua ad essere un valore deduttivo nella comunità artistica contemporanea.