Parte prima: Il classico nelle avanguardie storiche
1.1 I confini dell’avanguardia: De Chirico e il surrealismo
Una volta chiarito cosa si intende per classico e per classicismo resta da chiarire il concetto di avanguardia. Quest’ultimo concetto può infatti apparire persino ovvio nel caso di movimenti come il futurismo o il dadaismo, ma il problema si pone riguardo all’estensione di tale appellativo all’opera di artisti o a movimenti che hanno caratteristiche diverse da quelli appena citati. Nel nostro caso, parlare di classico ci porta subito ad imbatterci in autori come Giorgio de Chirico la cui appartenenza all’avanguardia è tutt’altro che ovvia. Sappiamo che la sua posizione degli anni Venti non lascia dubbi al riguardo. Egli è il paladino della “buona” pittura di contro alle sperimentazioni avanguardistiche; tuttavia la sua posizione rimane per molti versi ambigua. Mario de Michelis non considera ad esempio la metafisica tra i movimenti delle avanguardie storiche. Tutto ciò è ben comprensibile: De Pisis è tutto sommato un pittore di stampo tradizionale, Carrà è un caso eclatante di negazione del passato atteggiamento avanguardistico. Costoro, predicando un ritorno ai valori di una chiara espressione pittorica basata sulla cultura accademica, si pongono in aperta contraddizione con lo spirito delle avanguardie e in sintonia con il clima del ritorno all’ordine. Se da una parte abbiamo un De Chirico conservatore dall’altra parte è allo stesso modo accreditabile la tesi che vede in De Chirico uno dei pochi casi di genuina presenza italiana negli ambienti della prima avanguardia parigina e quindi internazionale. Anzi la fortuna di De Chirico inizia proprio in quegli ambienti. La prima sua mostra in uno spazio di una certa importanza è proprio quella tenuta a Parigi al Salon d’Automne. I suoi primi contatti con un circolo di artisti e intellettuali sono proprio quelli avuti con Apollinaire e di conseguenza con i fauves e con i cubisti. De Chirico deve molto alle istanze assorbite in quell’ambiente e gli deve innanzi tutto il suo successo. Inoltre la pittura di De Chirico deve una parte consistente della sua importanza all’influenza che essa eserciterà sui futuri membri del movimento surrealista, la qual cosa lo lega, volente o nolente, ancora una volta all’avanguardia. Certo, De Chirico polemizzerà con i surrealisti, i quali non esiteranno a rispondergli adeguatamente, ma anche in queste polemiche egli si dimostra ancora una volta immerso fino al collo in quel clima litigioso che è tipico delle avanguardie. Lo stesso surrealismo è un’avanguardia del tutto particolare. Infatti è un movimento decisamente tardo rispetto agli altri e proprio questa posterità gli da modo di farsi un’idea sintetica dell’avanguardia, di tracciarne quasi il modello o la forma ideale che poi esso tende ad incarnare. Si ha quindi una sorta di canonizzazione dell’avanguardia e questa forma canonica sarà il prototipo delle esperienze future che scaturiranno nella cultura europea fino agli anni Sessanta. Si può dire comunque che il surrealismo riassume e congela l’immagine dell’avanguardia storica rimanendo per i posteri l’avanguardia par excellence, che coniuga rivoluzione artistica e rivoluzione politica.
1. 2. Giorgio De Chirico
Parlando di “classico nelle avanguardie” De Chirico costituisce nel bene e nel male un punto di partenza ineludibile. Per capire in che modo il classicismo, l’eredità classica antica e l’avanguardia confluiscono nell’opera di quest’artista, per sua stessa definizione, enigmatico, occorre andare oltre il piano dell’interpretazione formale delle sue opere. Bisogna scavare più a fondo e reperire i significati che si nascondono nelle sue composizioni e che quasi sempre sono significati che hanno un nesso con la vita dell’artista. In De Chirico l’aspetto biografico non riveste il carattere della semplice curiosità per l’aneddotico o peggio per il pettegolezzo. In lui gli aspetti biografici assumono un rilievo ben maggiore di quanto non possa esserlo per l’artista che fa ad esempio arte astratta o arte politica, perché la biografia non è solo ciò che accompagna la produzione artistica, ma è soprattutto ciò che si ritrova all’interno delle sue composizioni, le quali possono essere viste come accumulazioni di ricordi (ricordi di fatti reali, di visioni libresche, di fantasie infantili, di stati d’animo, di impressioni). Il primo elemento da cui non possiamo prescindere in relazione al classico, è il fatto che De Chirico nasce in Grecia. Egli però non è greco, è figlio di una nobile famiglia italiana. Contravvenendo a quella che allora era ancora la norma negli ambienti aristocratici il padre di Giorgio de Chirico decise di lavorare e di farlo in un settore tecnico. Egli infatti compì studi di ingegneria e quindi si recò in Grecia per attendere ai lavori di costruzione della linea ferroviaria Atene-Salonicco. Questi primi scarni accenni già delineano un quadro gravido di conseguenze. Infatti abbiamo l’unione di tre elementi: la Grecia, patria incantata degli dèi omerici; la cultura aristocratica legata alla tradizione e alla cultura accademica e poi la tecnica legata allo sviluppo tecnologico, macchinico, industriale. Questi tre elementi assumeranno un ruolo chiave nella composizione della poetica metafisica del “pictor optimus”. L’infanzia di De Chirico è profondamente segnata dalla figura del padre, dal suo ambito di lavoro (le stazioni, i treni) dai suoi strumenti (righe, squadre, tavole), e soprattutto è segnata dalla morte prematura di quest’ultimo. Tutti questi elementi giocheranno un ruolo importantissimo nell’immaginario metafisico di De Chirico. Si pensi che Picasso lo definirà “il pittore delle stazioni”. In De Chirico, l’elemento tecnologico non viene salutato però con lo stesso entusiasmo e lo stesso ottimismo con cui viene accolto dai futuristi. La tecnologia non è l’annuncio del nuovo, non ha un aspetto avveniristico, ma al contrario è impregnato della dimensione nostalgica e melanconica del ricordo. Dicevamo che la morte del padre è stato un avvenimento traumatico della sua infanzia che ha portato l’artista a idealizzare la figura del padre, e infatti quest’ultimo poi ricompare a più riprese nei quadri metafisici, attraverso il tema del ritorno del figliuol prodigo o attraverso quello del filosofo. Al padre Giorgio de Chirico deve anche i suoi primi passi di disegnatore e pittore. Racconta egli stesso che una volta da bambino stava provando a copiare dei volti e non vi riusciva. Il padre allora, che aveva alcuni rudimenti di disegno, avvedutosi di quanto stava accadendo, gli spiegò un piccolo trucco per riuscire ad orientarsi nella composizione del viso, tracciando una croce le cui assi indicavano quella degli occhi e quella del naso. Ora questo fatto è interessante per due motivi: da una parte perché l’artista portò con sé il ricordo di questa astuzia compositiva, tanto che la ritroviamo anche in alcuni manichini metafisici; dall’altra parte perché apre un discorso che per il discorso qui trattato assume un’importanza maggiore. De Chirico inizia la sua esperienza nel disegno attraverso la copiatura di riproduzioni di altri disegni o dipinti. Niente di strano, si dirà, questo tipo di educazione al disegno attraverso la copiatura ha rappresentato il modello dominante di educazione alle arti figurative fino a mezzo secolo fa. Spesso però troviamo nelle biografie degli artisti un desiderio di evadere dai modelli, oppure scopriamo che l’artista inizia a disegnare per dare libero sfogo alla fantasia e solo in un secondo momento si applica alla riproduzione dei modelli passati per perfezionare la propria tecnica. Altri ancora scoprono la propria vocazione per il disegno ritraendo persone o cose che lo circondano in modo sbalorditivo. De Chirico non ha questa irrefrenabile tendenza al disegno, non è particolarmente dotato e non rende manifesta la sua inclinazione producendo disegni stupefacenti. La storia di De Chirico non assomiglia in nessun modo a quella dei grandi geni della pittura, ma al contrario il suo atteggiamento sembra sempre vicino a quello dell’amateur. De Chirico dunque copia i modelli, li copia da piccolo quando inizia ad interessarsi al disegno, li copia con un maestro personale che i genitori assumono per lui, li copia ancora alla scuola d’arte di Atene, dopo la morte del padre, ancora all’Accademia di Belle Arti di Monaco e infine, perfino dopo il successo, egli continua a vagare per musei per studiare e copiare i maestri dell’arte rinascimentale e barocca, i quali da giovane non gli avevano fatto alcun effetto, se non quello di sembrargli delle grandi illustrazioni libresche. Va detto tra l’altro che De Chirico, che si autonomina “pictor optimus”, non fosse poi così dotato in materia di pittura. Anzi sembra che sia sempre stato un allievo scadente. Il suo farsi sacerdote della buona pittura, oltre ad apparire come una pretesa consentita solo dal fatto che egli si riferiva al pubblico dell’avanguardia in cui la bella pittura era stata disertata, sembra ancora legata a un atteggiamento vagamente dilettantesco. Ecco probabilmente in questa chiave di cultura della copiatura e di dilettantismo va interpretato anche il suo rapporto col classico.
Venendo quindi alla questione del classico in De Chirico dobbiamo premettere che esso si articola i varie modalità. Da una parte sta il rapporto con la classicità intesa come antichità e quindi incarnata dalla Grecia antica le cui vestigia circondano l’artista fin dall’infanzia. De Chirico però non sembra particolarmente segnato da questa presenza, almeno da quanto si evince dalla sua produzione letteraria. Diversamente possiamo notare che la presenza di templi e di altri elementi dell’antichità ricorre spesso nella sua produzione figurativa. Le atmosfere dei luoghi greci lo condizionano certamente, ma De Chirico scrittore parla molto più spesso della Grecia moderna piuttosto che di quella antica. Alla Grecia moderna deve la sua formazione di pittore. E’ soprattutto nella scuola di disegno che egli viene a contatto con l’antico nella forma appunto della copiatura. De Chirico è convinto che la media dei pittori greci sia molto più alta in qualità di quanto non lo sia quella degli altri europei da lui incontrati in seguito. Nella scuola greca l’elemento della copiatura incarna la totalità dell’insegnamento. Egli stesso descrive così la sua istruzione al Politecnico: «Un pessimo sistema è quello usato oggi di far lavorare il giovane allievo direttamente dal vero. Al Politecnico di Atene si facevano quattro anni di disegno e di studio del bianco e nero da stampe e da sculture prima di lavorare direttamente da un modello vivo. Nel primo anno si copiavano figure stampate; nel secondo sculture, ma soltanto teste e busti, nel terzo e quarto anno ancora sculture, ma di corpi interi o gruppi di figure». Il copiare e il riprodurre hanno una grande importanza nel caso del classico, perché lo stesso concetto di classico nella sua ambivalente realtà di classicità e classicismo richiama in sé quello di riproduzione o copiatura. Il classicismo è infatti sempre imitazione di ciò che viene ritenuto classico così come qualcosa è ritenuto un classico al momento in cui lo si copia, in quanto lo si è elevato a modello. Solitamente i classicismi poi si traducono in una sintesi tra tendenze innovative e ripetizione del modello. In De Chirico tutto è ripetizione, tutto è copia, è l’unione insolita di queste copie, messe accanto le une alle altre come se fossero figurine a creare un effetto spiazzante e innovativo. Il pittore infatti provoca una coabitazione di elementi inconcludenti come se fossero elementi di un rebus. Ci troviamo allora tra la bellezza dell’incontro tra un ferro da stiro e un ombrello su una tavola operatoria e l’indizio di una trama nascosta, di un enigma. Il maestro ha ironizzato su questo clima da romanzo giallo o di attesa di un disastro imminente presente nei suoi quadri. Ma la copia e la ripetizione in lui non è rivolta solo alle opere classiche o alle immagini libresche. Infatti quando, dopo la morte del padre, la famiglia si stabilisce a Monaco di Baviera, l’artista ha modo di frequentare l’Accademia di Belle Arti di quella città. Lì De Chirico non copia solo i modelli classici, ma comincia a produrre le sue prime composizioni personali. In realtà queste pitture non hanno uno stile molto personale, poiché sono pesantemente condizionate dall’influsso della pittura del pittore simbolista Arnold Böcklin. Alcune tele tendono quasi a ricalcare le opere böckliniane, e si può constatare che alcune tracce di questo influsso rimarranno a lungo nella pittura dechirichiana: si pensi ad esempio al tema della figura ammantata vista di schiena, con la sua aura spettrale ed enigmatica, che verrà ripresa anche in opere del periodo metafisico. Per noi questo ha un interesse particolare, dal momento che i soggetti di Böcklin sono di tipo classico nel senso che rievocano elementi del mito greco o comunque della grecità, anche se il suo stile è tutt’altro che classico nel senso del classicismo accademico. L’approccio di quest’ultimo alla grecità è infatti fortemente irrazionale. Questo atteggiamento va ricondotto alla cultura tedesca di fine Ottocento che rompe con la tradizione classicista e neoclassica la quale tende a vedere nella cultura ellenica ed ellenistica l’espressione della razionalità, dell’equilibrio e dell’armonia. Già nel Settecento, in arte, autori come Füssli, partendo dalla cultura neoclassica, avevano esorbitato in direzione di un’espressione fortemente visionaria e irrazionale. Questo però allora aveva comportato anche un’evasione dalla cultura classica tout-court. Diversamente solo nell’ambiente filologico classico dell’Ottocento, con autori come Nietzsche, Rohde e Backofen si assiste a un’indagine sistematica degli aspetti più oscuri e irrazionali della cultura greca. Questo clima è interpretato da autori coevi come Böcklin, ma lascerà una traccia indelebile nella cultura europea successiva fino ai nostri giorni. Tra questi studiosi, quello che ha lasciato il segno più profondo è ovviamente Nietzsche, il quale costituisce la più amata lettura filosofica di De Chirico, a cui quest’ultimo affianca quella di Schopenhauer che, non a caso, è considerabile come uno dei maestri spirituali dello stesso Nietzsche. Anzi potremmo addirittura aggiungere che l’accoppiata Nietzsche-Schopenhauer diventerà tipica in alcune correnti della cultura europea del Novecento e ancora oggi ne abbiamo alcuni esempi in alcuni filosofi contemporanei, come nel caso del siciliano Manlio Sgalambro.
Gli anni di Monaco sono particolarmente significativi per comprendere il modo in cui questa eredità classica interagirà con l’avanguardia. Allora, nel primo decennio del secolo, Monaco sembrava essere la capitale della cultura europea. Questa infatti fu la ragione per cui la signora De Chirico decise di portarvi i suoi figli. Vista dalla Grecia, che era governata da una casa reale monacense, poteva anche sembrare più importante di quanto fosse in realtà. In effetti c’erano altri centri come Vienna che potevano contendergli questo primato. Tuttavia Monaco dette luogo a una Secessione monacense nella quale De Chirico vede l’origine di tutte le avanguardie e poi fu il polo di attrazione per artisti come Kandinskij, che ne fecero il centro di irradiazione del Blaue Reiter. La considerazione di De Chirico in ogni caso è sintomatica, perché prova che il nostro artista vedeva una continuità tra tendenze simboliste o tra la stilizzazione dello Jugendstil e la sperimentazione parigina, cosa che solitamente la critica tende a valutare diversamente. Quindi De Chirico, quando si reca a Parigi su invito del fratello, si approccia al dibattito parigino con il suo bagaglio intellettuale colmo di elementi classici, simbolisti e visionari portando un contributo diverso e originale nel milieu francofono (lo stesso De Chirico sottolinea come questa diversa natura fosse intuita con una punta di sospetto da parte dei suoi conoscenti parigini). Nella ricerca artistica francese la tendenza invece portava ad escludere qualsiasi riferimento al classico in nome di un desiderio di primitivismo. In un aneddoto si racconta che una volta Vlaminck mostrò una scultura africana trovata in un bistrot a Derain, dicendo che era quasi bella come la Venere di Milo, alché l’altro replicò che era bella come la Venere di Milo, per dirimere la questione fu allora invitato Picasso che disse che tutti e due si sbagliavano, perché essa era molto più bella della Venere di Milo. Indipendentemente dall’attendibilità di questa storiella, il fatto stesso che circolasse rendeva bene l’idea di quanto il trend di quel momento andasse nella direzione di un conclamato anticlassicismo, anche perché era totalmente mancata nella cultura francese quel mutamento di interpretazione della grecità che si era verificato in Germania e che la Francia stentava ad assorbire. Si pensi infatti che per assistere a un produttivo impatto del pensiero nicciano nella cultura francese bisogna attendere quasi la metà del secolo. De Chirico invece nelle sue Piazze d’Italia cercava proprio di rendere l’idea nicciana del meriggio. La sua visione delle cose, degli oggetti, afflitta da una inquietante melanconia, riflette ancora una volta una Stimmung nicciana. Alla cultura francese delle avanguardie, che in quel momento era tutta presa dal vitalismo e dal desiderio di concretezza della scomposizione cubista, mancava completamente quest’approccio. Per questo quando gli artisti francesi videro le opere di De Chirico rimasero incuriositi e in alcuni casi scioccati. De Chirico offriva una nuova chiave di lettura della memoria, della tradizione e del classico che vari artisti francesi non si sono lasciati sfuggire. Sembra infatti che la vista dei quadri di De Chirico sia stata vissuta come una specie di rivelazione da alcuni importanti artisti come Magritte, Ernst o Delvaux. In effetti la tradizione pittorica accademica e i retaggi classici, pur vissuti come giustapposizione di copie, vanno a formare una configurazione del tutto inedita e coerente proprio nella sua incoerenza logico-compositiva. De Chirico recupera le distorsioni prospettiche dell’antichità classica e le rivolge in senso anti-classicista. Infatti il suo modo di comporre è esso stesso “antico”, anteriore alla gabbia prospettica rinascimentale. Più che della pittura gotica o comunque medioevale, a cui in alcuni casi è stato avvicinato, egli risente di un modo di comporre tipico dell’antichità classica, in quanto privilegia l’attenzione per l’oggetto rispetto alla coerenza spaziale. La prospettiva quindi non è assente ma non segue un criterio di coerenza geometrica, essa è un attributo locale e non l’impianto spaziale generale della visione. Ci troviamo a che fare con una prospettiva intuitiva che a volte può sembrare simile a quella geometrica e che altre volte se ne discosta vistosamente. L’importanza maggiore è destinata alle figure o agli oggetti. La cultura pittorica della Grecia classica voleva dipingere le persone e le cose come sono e non la semplice apparenza del mondo che si dà nella visione. De Chirico, come i greci, è interessato a questa qualità metafisica delle cose. A questo proposito risulta particolarmente significativa un’osservazione su di lui fatta da suo fratello, Alberto Savinio, sulla rivista «Valori plastici» in cui rimarca il fatto che i suoi quadri non vogliono descrivere la semplice presenza dell’oggetto, ma vogliono giungere “al di là” dell’oggetto stesso e cioè alla realtà metafisica delle cose.
1.3. Alberto Savinio
Abbiamo appena citato Savinio, fratello di Giorgio de Chirico, il cui nome da battesimo era Andrea de Chirico, anche se in famiglia lo chiamarono fino all’età adulta Betty. La prima cosa che stupisce in Savinio è in effetti, il gioco dei nomi. Il nome proprio, che è l’altrare dell’identità, quello che si consegna alla memoria dei posteri, quello con cui si firmano le carte legali, in lui diventa un elemento di gioco. Le sue identità sono stratificate: all’anagrafe è Andrea de Chirico, in famiglia Betty, diminutivo da cui forse ha ricostruito Alberto a cui aggiunge Savinio che è un cognome che egli potrebbe aver tratto da un suo parente oppure dalla letteratura francese. Dunque Alberto Savinio è lo pseudonimo che usa per firmare le sue opere, ma nelle sue opere autobiografiche egli si identifica come Nivasio Dolcemare. Savinio è di tre anni più giovane di Giorgio e nasce anche lui in Grecia e vi trascorre l’infanzia. Savinio ripercorre questo periodo della sua vita in un libro intitolato L’infanzia di Nivasio Dolcemare. Qui troviamo subito alcune differenze rispetto al fratello maggiore. Se la tonalità affettiva che distingue la pittura metafisica di Giorgio è la melanconia e il perturbante, colto proprio nel significato freudiano di Uneimlich e cioè di una familiarità stravolta, quella di Savinio sta nell’ironia dissacrante, anche se questa dissacrazione è tale solo rispetto al comune buon senso. Infatti Savinio dipinge i genitori come esseri dalle sembianze di pesci, ma questo non vuol dire che non li ami. Savinio dipinge quindi l’antichità classica e soprattutto il mito o gli dèi mettendoli a contatto con gli elementi della cultura rurale greca moderna: con le palline di cacca degli ovini, con il caldo soffocante dell’estate, con lo sguardo stolido e atono degli animali. Può sembrare così che Savinio voglia prendere in giro la Grecia e gli dèi, ma lui non ironizza su di loro più di quanto non lo faccia su se stesso. La sua dissacrazione non è lo sfottò dell’illuminista convinto che si tratti di stolte superstizioni. L’idea di Savinio porta a pensare invece che l’ironia ci aiuti a cogliere proprio quel lato “spettrale” e metafisico che sfugge alla visione secolarizzata del mondo. Si potrebbe dire con uno slogan che se De Chirico coglie il rapporto con le cose e con l’antichità classica nello spirito della tragedia, Savinio lo fa in quello della commedia. Bisogna sempre tener presente però che la commedia saviniana non è appunto un semplice divertimento o una satira burlesca, ma che è quasi uno stile filosofico alla Luciano di Samosata, ma ancor di più è una ricerca socratica di elementi essenziali.
Savinio, da bambino, viene indirizzato agli studi musicali. Arrivato in Grmania continuerà a prendere lezioni e proverà anche a scrivere qualcosa senza troppo successo. Ad un certo punto la madre rientrò per periodo in Italia, Giorgio continuò la sua permanenza a Monaco e Andrea, in cerca di ambienti più favorevoli, si spostò a Parigi. Questo suo viaggio fu casualmente tempestivo, infatti proprio in quel momento a Parigi stava nascendo il fenomeno dell’Ecole de Paris. Egli, a differenza del fratello, quando arriva a Parigi, non ha maturato una formazione troppo dipendente dalle istanze del simbolismo e dello Jugendstil. Certo, anche Savinio, conosce e ama la pittura di Böcklin, legge Nietzsche e Schopenhauer, ma il suo carattere è molto più in sintonia con il vitalismo avanguardistico parigino. Di conseguenza il suo atteggiamento è molto più estremista e vicino alle esperienze di Dada. A Parigi Savinio viene conosciuto per alcune performance scatenate in cui suona il pianoforte in un modo talmente forte da farsi sanguinare le dita. Scrive anche un primo testo abbinato alla musica intitolato Les chants de la mi-mort, in cui descrive una figura senza volto simile a un manichino che probabilmente è all’origine dei manichini poi disegnati dal fratello. Savinio è più vicino al clima delle avanguardie e vi rimarrà anche in seguito a differenza del fratello che lo esorta a staccarsene. Se De Chirico è alla base di un’avanguardia come quella surrealista ma poi rifiuta di farvi parte, Savinio invece non ne costituisce il fondamento o uno membri più importanti, ma non provoca né secche rotture o ripulse o litigi. Questo succede anche perché lui, pur essendo presente di dagli inizi nei circoli d’avanguardia, approderà alla pittura solo molto tardi. Egli infatti inizia a dipingere solo dal 1926ca., quando cioè la metafisica aveva fatto storia e due anni dopo la nascita del movimento surrealista. Quando collaborava a Ferrara alla nascita del gruppo dell’arte metafisica non lo faceva da pittore, ma da musicista e da letterato. Ci si accorgerà solo relativamente tardi del fatto che Savinio sa essere anche un valente pittore. D’altronde la figura di Savinio è sfuggente proprio per il suo carattere poliedrico. La musica che avrebbe dovuto essere la sua strada viene presto accompagnata dalla scrittura. Poi alla scrittura e alla musica si accompagna la pittura e quindi il teatro, il tutto in una propensione all’estensione a tutte le sfere della creatività. Pare infine che abbia realizzato anche un progetto per un film. In tutte queste forme di espressione ritroviamo comunque il riferimento all’antichità classica. Anche in questo caso è doveroso distinguere l’antichità classica dal classicismo. Infatti in Savinio c’è ben poco di classicismo e accademismo. La sua espressione è sempre fuori dagli schemi. Egli costituisce un caso unico di artista totale che non si è concentrato tanto nel rompere delle barriere all’interno di una singola arte, quanto piuttosto a rompere quelle tra le varie arti. Egli non agisce in nome di uno sperimentalismo linguistico o di una ricerca formale. L’arte di Savinio non è autonoma, è al servizio di una organica visione immaginifica che non può limitarsi ad esprimersi con un solo mezzo. Savinio ha scoperto il suo “mundus imaginalis” e cerca di divulgarlo o comunque di renderlo percepibile in tutte le maniere possibili. Egli è quindi soprattutto un artista di contenuto, che impernia il suo lavoro su una personale visione del mondo di cui le varie arti offrono le finestre per affacciarvisi. E’ per questo motivo che ritroviamo espressi con canali diversi gli stessi temi. Savinio come dicevamo arriva a Parigi nel 1910, l’anno seguente viene raggiunto dalla madre e dal fratello. In quel periodo De Chirico deve svolgere una serie di cure per dei disturbi di probabile origine psicosomatica che lo affliggevano allo stomaco. A Parigi insieme cercano di farsi conoscere. Il successo arride a Giorgio ed entrambi cominciano a frequentare la casa di Apollinaire tramite il quale Andrea organizza il suo primo concerto di musica d’avanguardia nel 1914. E’ in questa occasione che Andrea adotta lo pseudonimo di Savinio per distinguersi dal fratello pittore. Già in quel frangente compare la vena classica ma non classicista di Savinio. Egli infatti si definisce “Artisan dionysiaïque”. Ancora Nietzsche dunque. La musica di Savinio, che chiama “Musique métaphysique” vuole essere una sorta di corrispettivo in musica delle pitture del fratello. Nella composizione, in mezzo a dissonanze squilibranti, compaiono stralci di motivi di musica popolare, ricordi di motivi familiari che si agitano su una base di disarticolazione spaesante. Anche qui abbiamo a che fare con procedimenti di copiatura che vengono gestiti in una sorta di “taglia e incolla”, che però non è il semplice collage dadaista. Non si tratta semplicemente di provocare il non-sens fine a se stesso. Nell’accumulazione saviniana questi elementi dissonanti vengono uniti in funzione di una precisa visione del mondo metafisico che i due fratelli in questo momento condividono appieno. L’unica differenza che si può notare già a questo punto è quella tra la dimensione statica e sospesa di De Chirico, in cui tutto sembra fuori dal tempo, bloccato in un flash di un ricordo, e la dimensione dinamica di Savinio. Certo, nella musica il dinamismo è quasi implicito, ma in Savinio tale aspetto lo si ritroverà anche nella letteratura, nella pittura e nel teatro nonché nel pensiero. Infatti egli sosteneva che nell’ironia e in particolar modo nella freddura si ha un aspetto dinamico del pensiero o delle idee. «La freddura – scrive Savinio – , ossia il gioco del bisenso, è la naturale nemica dell’idea fissa, questo fondamento della dittatura».
2. Il classico tra i surrealisti
Il Surrealismo deve molto a Giorgio de Chirico si potrebbe dire addirittura che la metafisica offre ai surrealisti la chiave per effettuare la transizione tra la composizione fortuita e casuale ereditata da Dada e il problema di stabilre un linguaggio visivo adeguato alla rappresentazione dei fatti dell’inconscio. De Chirico si è sempre rifiutato di riconoscere un qualche interesse per la psicoanalisi. Nonostante questo il tema della nevrosi e dell’inconscio non sono lontani dalla poetica dechirichiana e questo tratto forse contraddistingue nella maniera più profonda la sua pittura rispetto a quella degli altri metafisici come Carrà o De Pisis che non riescono a comunicare nessuna inquietudine visionaria, ma solo il richiamo della tradizione accademica e pittorica. Tornando all’ambiente familiare di De Chirico scopriamo che la sua famiglia è costellata di casi di stranezze ai limiti della psicopatologia. La zia Aglae usava alzarsi in piena notte dopodiché si vestiva in abito da ballo e guanti lunghi, accendeva i lampadari e si metteva a leggere le lettere di M.me de Sévigné (da cui forse ha tratto il cognome Savinio). Lo zio Alberto (da lui invece potrebbe aver preso il nome), uomo educato alle arti e alla letteratura, smise di uscire dalla sua casa di Livorno dall’età di trent’anni perché aveva paura dell’abisso, la qual cosa lo portava a camminare per la casa priva di finestre spingendo avanti a sé una sedia. Un’altra zia di nome Apollonia dondolava la testa sul bordo del sofà fino a divenire calva. Lo stesso Giorgio de Chirico lascia intuire di aver a lungo sofferto di una forma strisciante di depressione con conseguenti somatizzazioni che gli hanno procurato ripetuti fastidi. De Chirico non è certamente un folle ma riesce a riportare un clima che al di là della normalità borghese, è come se stesse all’inizio di una strada che condotta agli esiti estremi può incontrarsi con quella del delirio, dell’allucinazione e della follia. Tutto ciò non è sfuggito certamente ai surrealisti che attraverso le loro opere hanno sviluppato i temi dechirichiani proprio in senso allucinatorio, onirico e delirante, tralasciando invece quella mezza misura in cui c’era spazio ancora per la memoria dell’antico. Solo in pochi espenonenti del movimento surrealista è reperibile un’attenzione per gli aspetti del classico e forse solo in caso questa classicità è legata a De Chirico.
2.1. Paul Delvaux
Uno di quegli artisti per i quali la visione di De Chirico è stata rivelatrice e ha mutato tutto il modo di dipingere successivo è Delvaux. Egli ha più di un punto in comune con De Chirico. Non è nato in Grecia, ma coltiva fin da ragazzo una passione per la letteratura greca antica. Inoltre è un appassionato di stazioni ferroviarie. Qui però le stazioni non sono un ricordo paterno ma una passione hobbistica. L’aspetto dilettantesco è in Delavaux molto più forte che in De Chirico. Egli non compie studi regolari. Si iscrive ai corsi di architettura all’Accademia di Belle Arti ma li abbandona quasi subito per le difficoltà incontrate con la matematica. A differenza di De Chirico invece va sottolineato che scopre la pittura piuttosto tardi. Se poi in De Chirico si assiste a una sorta di dilettantismo culturale, ma è comunque indubitabile che l’artista per quanto poco dotato abbia una confidenza con la pittura, nel caso di Delvaux assistiamo ad un modo di dipingere quasi naif di cui l’artista Belga non riuscirà a liberarsi mai. Delvaux comincia la sua carriera pittorica dipingendo appunto stazioni e convogli ferroviari cercando faticosamente di ottenere effetti di un certo realismo descrittivo. Il suo modello quindi è costituito dalla tradizione realista, non c’è nulla di avanguardistico in quello che fa, al massimo si può scorgere la lezione del postimpressionismo. La visione dei quadri di De Chirico gli offre invece la soluzione linguistica per poter portare sulla tela direttamente la propria immaginazione. A questo punto la pittura di Delvaux subisce una brusca svolta in cui riemergono temi dell’adolescenza che concorrono a formare un mondo immaginario abbastanza omogeneo. Infatti nella sua pittura alcuni temi ritornano con una puntualità quasi ossessiva, ragion per cui riesce ad essere inquietante non solo per le singole visioni che in alcuni casi rasentano il kitsch quanto per la ripetitività e l’insistenza con cui ripropone uno scenario che alla fin fine è sempre lo stesso. Tale scenario è caratterizzato innanzitutto dalla visione onnipresente di donne con il seno scoperto o completamente nude in atteggiamenti statici o rituali, quasi da pittura egizia, ad esso si aggiunge per un lungo periodo la presenza di un ragazzo adolescente, anch’egli nudo, che probabilmente rappresenta l’artista stesso. Tra gli altri personaggi troviamo a più riprese due signori sul modello dell’accoppiata Philias Fog e aiutante o Sherlock Holmes e Watson o più probabilmente il geologo Lindenbrock e l’astronomo Rosette di Viaggio al centro della Terra di Verne, che l’autore si trascina dalle sue letture giovanili. Più inquietante è invece la presenza di scheletri e di una donna distesa, una Venere, che vanno fatti risalire ad alcune particolari visite che lui fece. Una in particolare è quella fatta al museo-baraccone del Dott. Spitzener in cui ha la possibilità di ammirare una Venere meccanica in cera che simulava la respirazione grazie a un congegno interno. Per quanto riguarda il rapporto con il classico c’è da dire che anch’esso emerge continuamente nei titoli e nelle ambientazioni. Infatti i quadri di Delvaux hanno generalmente tre tipi di ambientazioni: o sono in vecchie case borghesi con la carta da parati e le decorazioni al soffitto, o sono all’aperto o in mezzo a edifici classici, ruderi essenziali e stilizzati, giardini, qualche volta abitazioni comuni e stazioni ferroviarie. L’eredità classica però non è solo un fondale attraverso il linguaggio dell’architettura classica, l’aspirante architetto Delvaux, riesce a costruire dei climi irreali e freddi. Ecco, forse la nota che più contraddistingue l’impiego della tradizione classica rispetto a quello che ne fa De Chirico sta proprio nella freddezza. Qui la classicità è mediata dal razionalismo cartesiano, è una classicità ereditata dal neoclassicismo che si pone in maniera tanto ordinata quanto assurda. Si ha così una specie di teatrino di fondo per un gioco di dama in cui tutti i componenti sono pedine senza personalità e in cui il classico si pone come l’impersonale razionalità della scacchiera.
2.2. Salvador Dalì
Con Salvador Dalì usciamo dall’immediata filiazione dechirichiana. Non è che manchino in Dalì le citazioni da De Chirico; troviamo in alcune sue pitture accenni ai manichini, senza contare il fatto che l’adozione di questi grandi piani bruciati dal sole del meriggio sono di matrice dechirichiana. Dalì però non scopre De Chirico, quando arriva nel gruppo surrealista l’influenza dechirichiana ha già fatto storia e ha già influenzato autori come Tanguy o Ernst, a cui Dalì si rifà più direttamente. Dalì è un eccellente copiatore, ma non è mai pedissequo, è troppo amante del virtuosismo per esserlo. In effetti egli dispone della più eccellente abilità pittorica tra tutti i pittori analizzati fin ora e questo ha un particolare rilievo in quanto Dalì come De Chirico si riproponeva di risollevare le sorti della pittura proprio penetrando all’interno di uno di quei movimenti d’avanguardia che l’avevano incrinate. Dalì è anche un artista eccentrico ed egocentrico smanioso di farsi notare, egli riprende gli stilemi in uso di maggior successo e li esaspera in senso virtuosistico in modo da renderli appariscenti. E’ anche per questo quindi che il suo modo di dipingere ha tanto in comune con le tecniche dell’illustrazione pubblicitaria, la quale tende sempre all’effetto e all’iperrealismo. Il rapporto di Dalì con il classico si pone su due binari molto differenti tra loro a seconda che si intenda il classico come classicismo accademico e il classico come grecità. Dalì aspirava a diventare un classico e amava i classici della pittura spagnola, in particolar modo Velasquez. Il problema sta però nel fatto che quelli che gli erano stati trasmessi come dei classici negli studi artistici non sono imparentati con la rinascita della cultura ellenistico-romana. I classici dell’arte spagnola inseguono un realismo che ha inficiato tutta la tradizione spagnola sia nel senso della concretezza, come nel cubismo picassiano, sia nel senso del virtuosismo, stabilendo una tradizione che va dal barocco fino appunto a Dalì. Dalì quindi è un avanguardista di maniera e la sua formazione accademica lo porta a una sperimentazione che può essere letta anche come un tentativo di riportare ogni trasgressione all’interno della “bella” pittura. Per quanto riguarda il classico come tradizione greco-romana troviamo un solo caso importante in cui egli vi fa esplicitamente ricorso ed è ancora una volta a proposito della citatissima Venere di Milo. Egli realizza una scultura con un calco della Venere in cui vengono posti tanti cassetti. Qui ci possiamo accorgere come la tradizione antica sia del tutto distante da Dalì. In quest’opera, intitolata La Venere a cassetti, Dalì è interessato solo a prendere la statua classica come modello astratto della donna occidentale. La Venere è quindi poco più che un ideogramma, un simbolo convenzionale completamente svuotato di un senso proprio. Essa è solo l’oggetto noto alla massa, il souvenir da turista, che viene usato per fare un discorso sulla psicoanalisi, così come Freud l’ha fatto con Edipo, senza che però ci sia qui nessun particolare riferimento libresco. Il discorso che vuole fare Dalì servendosi dei cassetti riguarda una sorta di commento alla teoria freudiana nel suo complesso. «L’unica differenza tra la Grecia immortale e l’epoca contemporanea – scrive lo stesso Dalì – è costituita da Sigmund Freud, il quale ha scoperto che il corpo umano, puramente neoplatonico all’epoca dei Greci, è oggi pieno di cassetti segreti che soltanto lo psicanalista è in grado di aprire».
2.3. Man Ray
Abbiamo visto come l’antichità classica da riferimento culturale nicciano sia a divenuta quasi una semplice icona della tradizione occidentale. Su questo fronte è particolarmente significativa l’opera di Man Ray. Quest’ultimo nasce a Filadelfia negli USA ed è probabilmente il primo artista americano ad entrare tra i protagonisti di un movimento d’avanguardia. La sua formazione è di tipo artistico ma è segnata un impronta tecnicistica piuttosto che letteraria, anche se il suo insegnante, proveniente dal MIT, amava le divagazioni filosofiche. Questo ci dice già che l’ambiente in cui si forma Ray, segnato dal pragmatismo, dall’utilitarismo e dallo scientismo è del tutto estraneo a ogni forma di classico sia nel senso di classicismo che in quello di grecità. Man Ray ha la fortuna di conoscere Marcel Duchamp durante il suo soggiorno newyorkese e di diventarne amico. Così venne invitato a Parigi dove cominciò a frequentare gli ambienti dadaisti occupandosi di fotografia e, limitatamente, di cinema. Tra le sue foto si avverte un inaspettato interesse per alcune sculture classiche. Per questo americano a Parigi la scultura classica è dunque nulla più che un oggetto che non richiama nessuna memoria interiore, nessun significato profondo. Essa è un segno o addirittura più semplicemente un oggetto. Il primo caso riguarda ancora una volta la sfruttatissima Venere di Milo. E’ ovvio ormai che essa viene usata quasi alla stregua di un’icona pop e quindi non viene usata nonostante sia inflazionata ma proprio per la sua notorietà. Si tratta non di un’opera da esposizione ma di un intervento nella rivista «391» in cui pubblica una foto della Venere accanto a quella di una divinità africana con la didascalia “Black and White”. Come si può facilmente vedere siamo alla traduzione in immagini del famoso battibecco tra Vlaminck e Derain. Ancora una volta si mette la cosiddetta “arte negra” contro l’arte “bianca” dei greci. Ma cosa c’è ormai di greco nella Venere di Ray? Essa è solo il simbolo della scultura occidentale e quindi per esteso della cultura classicista tradizionale come in Dalì. Essa è più vagamente il passato a cui si oppone l’azzeramento selvaggio delle avanguardie. Altri classici verranno usati da Man Ray in composizioni fotografiche o in assemblages. In questi la statua greca perde anche quel valore iconico di antichità per diventare un semplice oggetto plastico, un ready-made. Il busto di Venere legato ha l’effetto di sottolineare proprio il contrasto tra il materiale ordinario costituito dalla corda che contrasta felicemente con la levigata bianchezza dell’oggetto-statua ridotto a semplice frammento. Con Man-Ray si spezza definitivamente ogni residuo legame con l’eredità classica e si comincia a sottolineare la distanza della società industriale e tecnologica da un qualcosa che è ridotto a merce culturale, oggetto da conservare, frammento di una lingua morta di cui si ode solo il suono senza afferrarne le parole.
3. La musica: Igor Stravinsky e le ambiguità del “neoclassicismo”
Relativamente a Stravinskij si usa parlare di neoclassicismo come di una delle cosiddette “tre fasi”. Questa schematizzazione è stata recentemente criticata, in favore di un’analisi più aderente all’attività creativa del compositore russo, ma è indubitabile che essa costituisca ormai un oggetto che è entrato a far parte della “questione Stravinskij”, non solo perché è pesantemente riscontrabile nella fortuna critica, ma anche perché nelle schematizzazioni si trova sempre la sintesi, magari troppo stringata, di una serie di fatti stilistici e poetici che hanno un’effettiva consistenza storica. Tale è almeno il caso del neoclassicismo: infatti, lungi dall’essere una formula vuota, questo termine ci dà immediatamente il senso di una svolta culturale che segue il periodo delle sperimentazioni ardite delle avanguardie storiche, di una volontà di recupero della tradizione istituzionale riletta però attraverso le categorie linguistiche, ormai mutate, delle avanguardie. In questi caratteri si possono riscontrare aspetti comuni tra le varie arti, ma allo stesso tempo, in questo confronto, il senso stesso del termine neoclassico può apparire quanto mai ambiguo. Tali ambiguità sono di tre tipi: una relativa al termine in sé, un’altra relativa al rapporto con le altre arti e, infine, una specifica della musica in Stravinskij stesso.
3.1 L’ambiguità di “classico” e “neoclassico”
Dicevamo che una prima ambiguità sta proprio all’interno del concetto stesso di classico. Classica è infatti l’arte più alta, ma questa arte elevata è stata identificata per secoli soprattutto con quella degli antichi, comportando l’identificazione di cultura classica e cultura antica. Ad esempio in tutto il medioevo la cultura antica era ritenuta più alta e completa di quanto non fosse quella del tempo. Ciò non era dovuto solo al fatto che la cultura europea di quei secoli era particolarmente disastrata (soprattutto nell’alto medioevo per il venir meno degli scambi economici e la conseguente crisi dei centri urbani), ma anche alla convinzione che ciò che era antico e tradizionale fosse preferibile a ciò che era nuovo, precario e “moderno” (non a caso quest’ultimo termine viene introdotto con una valenza non particolarmente positiva a partire da V sec d.C.). Il mondo “classico” quindi diventa quello dei pagani in contrapposizione a quello “moderno” cristiano. Ma anche all’interno dell’età antica troviamo un’ulteriore distinzione: infatti il mondo tardo-alessandrino e quello romano indicarono come periodo classico quello dell’Atene del V-IV sec. a.C.. Con ciò si ebbero anche i primi casi di classicismo (ovvero di ripresa degli stilemi di questi due secoli) già sotto Augusto o sotto Adriano. Dopo il crollo di Roma il primo tiepido tentativo classicista si ha solo sotto Carlo Magno. Poi si avranno altre forme sporadiche di classicismo in tutto il basso medioevo, ma la manifestazione per eccellenza del classicismo si avrà con la Rinascenza. Dopo il Rinascimento la situazione si complica, infatti il classicismo accademico del Sei-Settecento, nelle arti del disegno (pittura, scultura e architettura), si ispira contemporaneamente all’antichità e al Rinascimento stesso o all’antichità mediata dalla cultura rinascimentale. Non accade così ad esempio per il dramma teatrale il quale indica come età classica i tempi della tragedia antica, ma anche il periodo che va tra la fine del Cinquecento e il Seicento ovvero quando sono attivi Shakespeare, Moliere e Calderon de la Barca. Oppure non accade così in generale ad esempio nella prospettiva storico-culturale dei francesi che considerano “età classica” il Sei-Settecento. E, infine, non è così naturalmente per la musica che non ritrova nessun particolare modello nell’antichità e pone la musica classica all’apice del sistema tonale tra Sette e Ottocento. Se esistono tanti classicismi la situazione non è poi molto più semplice riguardo ai neoclassicismi. Il neoclassicismo per eccellenza è solo uno: quello che si manifesta tra la fine del Settecento e i primi anni dell’Ottocento in pittura, scultura, architettura ma anche nella poesia, nelle arti decorative e perfino nella moda. Adesso il problema è capire a cosa ci si riferisce tra gli anni Venti e Trenta quando si torna a parlare di neoclassicismo.
3.2 Il rapporto con le arti
Negli anni Venti si assiste a una svolta in senso accademico e convenzionale in vari settori dell’arte. In particolar modo qui ci interessa la pittura. Questo perché Stravinskij ha frequentato molto intensamente gli ambienti parigini dell’arte figurativa e perché si è spesso portato, a proposito della questione del neoclassicismo, un parallelo con l’itinerario artistico di Picasso, di cui Stravinskij era notoriamente amico. Per prima cosa occorrerebbe chiedersi quanto sia lecito questo parallelismo tra due generi che hanno avuto una storia in merito al classicismo così diversa. Infatti nel momento in cui spira il vento del ritorno all’ordine, il classicismo pittorico che si riaffaccia è quello della cultura accademica radicata nell’impianto prospettico rinascimentale, dato che la prospettiva gioca nel classicismo pittorico un ruolo analogo a quello del sistema tonale. La situazione però non è omogenea, infatti non tutti recuperano la prospettiva, in alcuni casi si assiste a una semplice ripresa della pittura figurativa in luogo di quella astratta, concreta o cubista. In altri casi ancora questo ritorno alla figurazione comporta anche la ripresa di temi classici intesi nel senso di “antichi” o “mitologici”. In particolar modo in Picasso la ripresa dell’antico è attuata al di fuori del linguaggio prospettico, anche se unita a un tipo di rappresentazione pittorica figurativa e leggibile. C’è chi ha proposto in ultima analisi allora un confronto tra il neoclassicismo di Stravinskij e la pittura metafisica di De Chirico (anche lui collaborò tra l’altro ai Ballets Russes), in quanto i riferimenti alla cultura classica (antica) vengono non solo posti al di fuori della prospettiva tradizionalmente intesa, ma in un contesto che tanto accademicamente levigato quanto al contempo spiazzante e inquietante. Mancherebbe perciò in entrambi un messaggio rassicurante legato al recupero del classico. Tutto ciò ci fa capire come anche il fenomeno del ritorno alla figurazione che caratterizza gli anni Venti abbia un carattere tutt’altro che unitario ed organico. Non ci troviamo in effetti alle prese con un nuovo stile, ma con una situazione semplicemente determinata dal fatto che viene a scemare la pressione dello sperimentalismo delle avanguardie. Ciò ha vari esiti: 1) si aprono le porte o, potremmo dire, si concede la parola a chi aveva continuato a realizzare una produzione figurativa, magari tiepidamente modernizzata, ed era stato eclissato dal bagliore delle provocazioni avanguardistiche; 2) artisti che si erano piegati in modo non convinto agli stilemi dell’avanguardia hanno la possibilità di proporre un’arte più rassicurante e adatta ai loro pregiudizi estetici; 3) alcuni di artisti di avanguardia approfittano di questo momento per fare i conti con la storia dell’arte o esporre la loro abilità o infine per rileggere il passato attraverso i nuovi strumenti linguistici di cui si sono appropriati; 4) infine ci sono coloro che, come i surrealisti, usano la figurazione per inventarsi un’ulteriore avanguardia. Prendiamo ad esempio il caso di un pittore come Gino Severini, che potrebbe essere classificato nella terza tipologia di quelle appena esposte. Severini è un pittore che sviluppa una grande abilità e che si butta convintamene nell’avventura cubo-futurista, poi però torna alla figurazione facendo sfoggio della propria abilità e ripercorrendo consapevolmente alcuni aspetti della pittura accademica che, finalmente, ha modo di approfondire con maturità e non più per apprendistato. È lui, tra l’altro l’autore di alcuni, nitidissimi pulcinella, che nella loro limpidezza assumono quasi un aspetto metafisico e spiazzante, così come avviene in altri dipinti dove inserisce elementi classici-antichi. Con ciò non si vuole sostituire il paragone con Severini a quello con Picasso o De Chirico. Infatti nessuno di questi paragoni potrà mai calzare per Stravinskij perché si tratta pur sempre di autori cresciuti nel cuore della cultura europea che non hanno un vissuto folklorico così diverso, tale da porli quasi in una condizione di alterità nei confronti della cultura europea. L’unico caso sarebbe potuto essere quello di Kandinskij, ma sfortunatamente per il nostro paragone, dopo un primo periodo figurativo (tra l’altro fortemente folklorico), che è assimilabile alle prime esperienze musicali di Stravinskij, prende con decisione la strada dell’astrattismo e della pittura concreta senza passi indietro e tra l’altro stringe amicizia proprio con Schönberg (anche se poi arriveranno a una rottura) ovvero con colui che ha costituito per molti il controaltare dell’esperienza stravinskiana. Tuttavia il confronto con le arti figurative, al di là della ricerca di rigidi parallelismi, può essere significativo per comprendere un ambito di scelte poetiche e tendenze estetetiche a cui Stravinskij non è immune. Le arti figurative di questo periodo infatti costituiscono nel loro complesso una serie di percorsi che, presi in un modo più elastico, possono contribuire a illuminare le scelte straviskiane. In questo senso allora ci sono di aiuto tanto Picasso quanto De Chirico, Carrà e Severini. Anche senza trovare un pittore che abbia seguito una vicenda comparabile in tutto e per tutto con quella straviskiana troviamo nel mondo delle arti figurative il momento folklorico-barbarico che si incarna nella sperimentazione avanguardistica (sia essa la storia delle maschere africane che in Picasso danno il via al cubismo o quella delle fiabe russe che danno il via al Blaue Reiter in Kandinskij); troviamo poi il momento della ripresa della tradizione e dell’antichità dopo lo sperimentalismo (lo stesso Picasso lo fa in una maniera un po’ troppo brut, Severini in modo quasi virtuosistico, Carrà in forma stilizzata e modernista). A questo proposito è interessante constatare che il motivo del Pulcinella di Stravinskij è qualcosa che è sicuramente riconducibile, oltre che alla riscoperta di Pergolesi, alle tematiche della pittura tra tardo-cubismo e ritorno alla figurazione, in cui il tema delle maschere della commedia dell’arte ricorre in più occasioni. Infine troviamo nella pittura ancora il ritorno dalla figurazione all’astrazione sperimentalista, anche in aree dove prima non aveva attecchito come la Francia (si pensi a Cercle et Carré già negli anni Trenta) o gli Stati Uniti (si pensi all’espressionismo astratto e alle influenze sull’astrazione post pittorica provenienti dalla scuola del Bauhaus).
3.3 Il neoclassicismo musicale
Giungendo infine al neoclassicismo musicale dobbiamo intanto constatare anche qui un doppio aspetto (almeno per quel che riguarda Stravinskij): da una parte c’è il ritorno alla musica classica (che costituisce l’aspetto preponderante) e dall’altra c’è anche la ripresa di tematiche mitologiche classiche, nel senso di appartenenti alla cultura greco-ellenistica. A quest’ultima infatti fanno riferimento titoli come Oedipus rex, Apollon musagete, Persephone ecc.. Chiarite queste valenze del termine classico occorrerà tornare sulla “barbaricità” di Stravinskij. Infatti per lui il classicismo o il neoclassicismo non può significare il rassicurante ritorno entro i confini della cultura che lo ha generato. Non dobbiamo però neanche presumere una tale estraneità della cultura Russa a quella europea da considerarlo non-occidentale. Questo significa che il classicismo di Stravinskij si gioca ancora su un’altra ambiguità e cioè quella della appartenenza o meno alla tradizione europea. La Russia di cui è figlio Stravinskij è una nazione che cerca di rivendicare una propria autonomia e specificità culturale, non perché ha una cultura “altra” rispetto a quella europea come lo è quella araba, indiana o cinese, ma perché è una cultura periferica dell’Europa minata sempre dalla frustrazione del provincialismo. Ed è proprio questo provincialismo che porta vari intellettuali russi a oscillare tra orgogliose dichiarazioni di indipendenza e affannosi tentativi di aggiornamento culturale, da effettuare attraverso uno stretto contatto con la situazione delle capitali culturali d’Europa (che all’inizio del secolo sono Monaco e Parigi). Da questo punto di vista risulta penetrante un’acuta analisi di Argan rivolta al futurismo italiano e russo. Egli attribuì entrambi i fenomeni a un desiderio di riscatto e di rivincita o addirittura di superamento e di protagonismo, che trova la sua ragion d’essere proprio nell’umiliante condizione di provincialismo in cui versavano gli ambienti culturali nazionali (e che tuttavia vedevano la presenza di importanti personalità). L’ambiguità di Stravinskij si gioca allora anche nel riconoscere o meno il classicismo come facente parte del proprio corredo genetico al di là delle rivendicazioni dell’«eurasismo» e della specificità o dello spiritualismo russo. Stravinskij vive una sorta di oscillazione tra cultura classica e cultura folklorica, da piccolo sente le canzoni popolari, le ninne-nanne, poi ancora bambino inizia a studiare pianoforte in base alla cultura europea classica che gli serve da apprendistato; quando è ancora più grande va a lezione da Rimskij-Korsakov che lo riporta alle arie russe (seppure all’interno di un’abilità orchestrativa quasi virtuosistica tutta fondata sulla musica tonale). Di qui il giovane Stravinskij matura un atteggiamento che potremmo chiamare quasi di estremismo folklorico che però non si traduce in un’etnomusicologia, ma in una forte estetica barbarista e irrazionalista. A questo punto il recupero del classicismo diviene un ritorno a una rilettura di degli elementi del suo apprendistato, letti però senza l’atteggiamento della rivolta avanguardistica, ma al contrario maturamente sussunti dentro un suo linguaggio musicale ormai inconfondibile. In questo senso Stravinskij si dedica al completamento di questa sua identità di europeo di frontiera approfondendo i classici e la cultura classica (antica) senza il timore che ne risulti cancellata la propria identità culturale. In questo senso la sua non è inquadrabile come la svolta operata da altri musicisti o in generale artisti europei dei paesi “centrali”. Non c’è solo la differenza tra lo sperimentatore non pentito e quello passato a posizioni addirittura reazionarie come può essere il caso di Casella, qui c’è in gioco il completamento dell’identità di Stravinskij come artista occidentale. Solo dopo questo atto di recupero e riscoperta della tradizione Stravinskij può procedere sui binari dello sperimentalismo più tipicamente occidentale, qual è appunto quello dodecafonico, che riesce a gestire e a padroneggiare finalmente fuori da qualsiasi ansia di aggiornamento o da qualsiasi astio nazionalistico verso un mondo occidentale non avvertito come totalmente proprio.