Parlando di “classico nelle avanguardie” De Chirico costituisce nel bene e nel male un punto di partenza ineludibile. Per capire in che modo il classicismo, l’eredità classica antica e l’avanguardia confluiscono nell’opera di quest’artista, per sua stessa definizione, enigmatico, occorre andare oltre il piano dell’interpretazione formale delle sue opere. Bisogna scavare più a fondo e reperire i significati che si nascondono nelle sue composizioni e che quasi sempre sono significati che hanno un nesso con la vita dell’artista. In De Chirico l’aspetto biografico non riveste il carattere della semplice curiosità per l’aneddotico o peggio per il pettegolezzo. In lui gli aspetti biografici assumono un rilievo ben maggiore di quanto non possa esserlo per l’artista che fa ad esempio arte astratta o arte politica, perché la biografia non è solo ciò che accompagna la produzione artistica, ma è soprattutto ciò che si ritrova all’interno delle sue composizioni, le quali possono essere viste come accumulazioni di ricordi (ricordi di fatti reali, di visioni libresche, di fantasie infantili, di stati d’animo, di impressioni). Il primo elemento da cui non possiamo prescindere in relazione al classico, è il fatto che De Chirico nasce in Grecia. Egli però non è greco, è figlio di una nobile famiglia italiana. Contravvenendo a quella che allora era ancora la norma negli ambienti aristocratici il padre di Giorgio de Chirico decise di lavorare e di farlo in un settore tecnico. Egli infatti compì studi di ingegneria e quindi si recò in Grecia per attendere ai lavori di costruzione della linea ferroviaria Atene-Salonicco. Questi primi scarni accenni già delineano un quadro gravido di conseguenze. Infatti abbiamo l’unione di tre elementi: la Grecia, patria incantata degli dèi omerici; la cultura aristocratica legata alla tradizione e alla cultura accademica e poi la tecnica legata allo sviluppo tecnologico, macchinico, industriale. Questi tre elementi assumeranno un ruolo chiave nella composizione della poetica metafisica del “pictor optimus”. L’infanzia di De Chirico è profondamente segnata dalla figura del padre, dal suo ambito di lavoro (le stazioni, i treni) dai suoi strumenti (righe, squadre, tavole), e soprattutto è segnata dalla morte prematura di quest’ultimo. Tutti questi elementi giocheranno un ruolo importantissimo nell’immaginario metafisico di De Chirico. Si pensi che Picasso lo definirà “il pittore delle stazioni”. In De Chirico, l’elemento tecnologico non viene salutato però con lo stesso entusiasmo e lo stesso ottimismo con cui viene accolto dai futuristi. La tecnologia non è l’annuncio del nuovo, non ha un aspetto avveniristico, ma al contrario è impregnato della dimensione nostalgica e melanconica del ricordo. Dicevamo che la morte del padre è stato un avvenimento traumatico della sua infanzia che ha portato l’artista a idealizzare la figura del padre, e infatti quest’ultimo poi ricompare a più riprese nei quadri metafisici, attraverso il tema del ritorno del figliuol prodigo o attraverso quello del filosofo. Al padre Giorgio de Chirico deve anche i suoi primi passi di disegnatore e pittore. Racconta egli stesso che una volta da bambino stava provando a copiare dei volti e non vi riusciva. Il padre allora, che aveva alcuni rudimenti di disegno, avvedutosi di quanto stava accadendo, gli spiegò un piccolo trucco per riuscire ad orientarsi nella composizione del viso, tracciando una croce le cui assi indicavano quella degli occhi e quella del naso. Ora questo fatto è interessante per due motivi: da una parte perché l’artista portò con sé il ricordo di questa astuzia compositiva, tanto che la ritroviamo anche in alcuni manichini metafisici; dall’altra parte perché apre un discorso che per il discorso qui trattato assume un’importanza maggiore. De Chirico inizia la sua esperienza nel disegno attraverso la copiatura di riproduzioni di altri disegni o dipinti. Niente di strano, si dirà, questo tipo di educazione al disegno attraverso la copiatura ha rappresentato il modello dominante di educazione alle arti figurative fino a mezzo secolo fa. Spesso però troviamo nelle biografie degli artisti un desiderio di evadere dai modelli, oppure scopriamo che l’artista inizia a disegnare per dare libero sfogo alla fantasia e solo in un secondo momento si applica alla riproduzione dei modelli passati per perfezionare la propria tecnica. Altri ancora scoprono la propria vocazione per il disegno ritraendo persone o cose che lo circondano in modo sbalorditivo. De Chirico non ha questa irrefrenabile tendenza al disegno, non è particolarmente dotato e non rende manifesta la sua inclinazione producendo disegni stupefacenti. La storia di De Chirico non assomiglia in nessun modo a quella dei grandi geni della pittura, ma al contrario il suo atteggiamento sembra sempre vicino a quello dell’amateur. De Chirico dunque copia i modelli, li copia da piccolo quando inizia ad interessarsi al disegno, li copia con un maestro personale che i genitori assumono per lui, li copia ancora alla scuola d’arte di Atene, dopo la morte del padre, ancora all’Accademia di Belle Arti di Monaco e infine, perfino dopo il successo, egli continua a vagare per musei per studiare e copiare i maestri dell’arte rinascimentale e barocca, i quali da giovane non gli avevano fatto alcun effetto, se non quello di sembrargli delle grandi illustrazioni libresche. Va detto tra l’altro che De Chirico, che si autonomina “pictor optimus”, non fosse poi così dotato in materia di pittura. Anzi sembra che sia sempre stato un allievo scadente. Il suo farsi sacerdote della buona pittura, oltre ad apparire come una pretesa consentita solo dal fatto che egli si riferiva al pubblico dell’avanguardia in cui la bella pittura era stata disertata, sembra ancora legata a un atteggiamento vagamente dilettantesco. Ecco probabilmente in questa chiave di cultura della copiatura e di dilettantismo va interpretato anche il suo rapporto col classico.
Venendo quindi alla questione del classico in De Chirico dobbiamo premettere che esso si articola i varie modalità. Da una parte sta il rapporto con la classicità intesa come antichità e quindi incarnata dalla Grecia antica le cui vestigia circondano l’artista fin dall’infanzia. De Chirico però non sembra particolarmente segnato da questa presenza, almeno da quanto si evince dalla sua produzione letteraria. Diversamente possiamo notare che la presenza di templi e di altri elementi dell’antichità ricorre spesso nella sua produzione figurativa. Le atmosfere dei luoghi greci lo condizionano certamente, ma De Chirico scrittore parla molto più spesso della Grecia moderna piuttosto che di quella antica. Alla Grecia moderna deve la sua formazione di pittore. E’ soprattutto nella scuola di disegno che egli viene a contatto con l’antico nella forma appunto della copiatura. De Chirico è convinto che la media dei pittori greci sia molto più alta in qualità di quanto non lo sia quella degli altri europei da lui incontrati in seguito. Nella scuola greca l’elemento della copiatura incarna la totalità dell’insegnamento. Egli stesso descrive così la sua istruzione al Politecnico: «Un pessimo sistema è quello usato oggi di far lavorare il giovane allievo direttamente dal vero. Al Politecnico di Atene si facevano quattro anni di disegno e di studio del bianco e nero da stampe e da sculture prima di lavorare direttamente da un modello vivo. Nel primo anno si copiavano figure stampate; nel secondo sculture, ma soltanto teste e busti, nel terzo e quarto anno ancora sculture, ma di corpi interi o gruppi di figure» . Il copiare e il riprodurre hanno una grande importanza nel caso del classico, perché lo stesso concetto di classico nella sua ambivalente realtà di classicità e classicismo richiama in sé quello di riproduzione o copiatura. Il classicismo è infatti sempre imitazione di ciò che viene ritenuto classico così come qualcosa è ritenuto un classico al momento in cui lo si copia, in quanto lo si è elevato a modello. Solitamente i classicismi poi si traducono in una sintesi tra tendenze innovative e ripetizione del modello. In De Chirico tutto è ripetizione, tutto è copia, è l’unione insolita di queste copie, messe accanto le une alle altre come se fossero figurine a creare un effetto spiazzante e innovativo. Il pittore infatti provoca una coabitazione di elementi inconcludenti come se fossero elementi di un rebus. Ci troviamo allora tra la bellezza dell’incontro tra un ferro da stiro e un ombrello su una tavola operatoria e l’indizio di una trama nascosta, di un enigma. Il maestro ha ironizzato su questo clima da romanzo giallo o di attesa di un disastro imminente presente nei suoi quadri. Ma la copia e la ripetizione in lui non è rivolta solo alle opere classiche o alle immagini libresche. Infatti quando, dopo la morte del padre, la famiglia si stabilisce a Monaco di Baviera, l’artista ha modo di frequentare l’Accademia di Belle Arti di quella città. Lì De Chirico non copia solo i modelli classici, ma comincia a produrre le sue prime composizioni personali. In realtà queste pitture non hanno uno stile molto personale, poiché sono pesantemente condizionate dall’influsso della pittura del pittore simbolista Arnold Böcklin. Alcune tele tendono quasi a ricalcare le opere böckliniane, e si può constatare che alcune tracce di questo influsso rimarranno a lungo nella pittura dechirichiana: si pensi ad esempio al tema della figura ammantata vista di schiena, con la sua aura spettrale ed enigmatica, che verrà ripresa anche in opere del periodo metafisico. Per noi questo ha un interesse particolare, dal momento che i soggetti di Böcklin sono di tipo classico nel senso che rievocano elementi del mito greco o comunque della grecità, anche se il suo stile è tutt’altro che classico nel senso del classicismo accademico. L’approccio di quest’ultimo alla grecità è infatti fortemente irrazionale. Questo atteggiamento va ricondotto alla cultura tedesca di fine Ottocento che rompe con la tradizione classicista e neoclassica la quale tende a vedere nella cultura ellenica ed ellenistica l’espressione della razionalità, dell’equilibrio e dell’armonia. Già nel Settecento, in arte, autori come Füssli, partendo dalla cultura neoclassica, avevano esorbitato in direzione di un’espressione fortemente visionaria e irrazionale. Questo però allora aveva comportato anche un’evasione dalla cultura classica tout-court. Diversamente solo nell’ambiente filologico classico dell’Ottocento, con autori come Nietzsche, Rohde e Backofen si assiste a un’indagine sistematica degli aspetti più oscuri e irrazionali della cultura greca. Questo clima è interpretato da autori coevi come Böcklin, ma lascerà una traccia indelebile nella cultura europea successiva fino ai nostri giorni. Tra questi studiosi, quello che ha lasciato il segno più profondo è ovviamente Nietzsche, il quale costituisce la più amata lettura filosofica di De Chirico, a cui quest’ultimo affianca quella di Schopenhauer che, non a caso, è considerabile come uno dei maestri spirituali dello stesso Nietzsche. Anzi potremmo addirittura aggiungere che l’accoppiata Nietzsche-Schopenhauer diventerà tipica in alcune correnti della cultura europea del Novecento e ancora oggi ne abbiamo alcuni esempi in alcuni filosofi contemporanei, come nel caso del siciliano Manlio Sgalambro.
Gli anni di Monaco sono particolarmente significativi per comprendere il modo in cui questa eredità classica interagirà con l’avanguardia. Allora, nel primo decennio del secolo, Monaco sembrava essere la capitale della cultura europea. Questa infatti fu la ragione per cui la signora De Chirico decise di portarvi i suoi figli. Vista dalla Grecia, che era governata da una casa reale monacense, poteva anche sembrare più importante di quanto fosse in realtà. In effetti c’erano altri centri come Vienna che potevano contendergli questo primato. Tuttavia Monaco dette luogo a una Secessione monacense nella quale De Chirico vede l’origine di tutte le avanguardie e poi fu il polo di attrazione per artisti come Kandinskij, che ne fecero il centro di irradiazione del Blaue Reiter. La considerazione di De Chirico in ogni caso è sintomatica, perché prova che il nostro artista vedeva una continuità tra tendenze simboliste o tra la stilizzazione dello Jugendstil e la sperimentazione parigina, cosa che solitamente la critica tende a valutare diversamente. Quindi De Chirico, quando si reca a Parigi su invito del fratello, si approccia al dibattito parigino con il suo bagaglio intellettuale colmo di elementi classici, simbolisti e visionari portando un contributo diverso e originale nel milieu francofono (lo stesso De Chirico sottolinea come questa diversa natura fosse intuita con una punta di sospetto da parte dei suoi conoscenti parigini). Nella ricerca artistica francese la tendenza invece portava ad escludere qualsiasi riferimento al classico in nome di un desiderio di primitivismo. In un aneddoto si racconta che una volta Vlaminck mostrò una scultura africana trovata in un bistrot a Derain, dicendo che era quasi bella come la Venere di Milo, alché l’altro replicò che era bella come la Venere di Milo, per dirimere la questione fu allora invitato Picasso che disse che tutti e due si sbagliavano, perché essa era molto più bella della Venere di Milo . Indipendentemente dall’attendibilità di questa storiella, il fatto stesso che circolasse rendeva bene l’idea di quanto il trend di quel momento andasse nella direzione di un conclamato anticlassicismo, anche perché era totalmente mancata nella cultura francese quel mutamento di interpretazione della grecità che si era verificato in Germania e che la Francia stentava ad assorbire. Si pensi infatti che per assistere a un produttivo impatto del pensiero nicciano nella cultura francese bisogna attendere quasi la metà del secolo. De Chirico invece nelle sue Piazze d’Italia cercava proprio di rendere l’idea nicciana del meriggio. La sua visione delle cose, degli oggetti, afflitta da una inquietante melanconia, riflette ancora una volta una Stimmung nicciana. Alla cultura francese delle avanguardie, che in quel momento era tutta presa dal vitalismo e dal desiderio di concretezza della scomposizione cubista, mancava completamente quest’approccio. Per questo quando gli artisti francesi videro le opere di De Chirico rimasero incuriositi e in alcuni casi scioccati. De Chirico offriva una nuova chiave di lettura della memoria, della tradizione e del classico che vari artisti francesi non si sono lasciati sfuggire. Sembra infatti che la vista dei quadri di De Chirico sia stata vissuta come una specie di rivelazione da alcuni importanti artisti come Magritte, Ernst o Delvaux. In effetti la tradizione pittorica accademica e i retaggi classici, pur vissuti come giustapposizione di copie, vanno a formare una configurazione del tutto inedita e coerente proprio nella sua incoerenza logico-compositiva. De Chirico recupera le distorsioni prospettiche dell’antichità classica e le rivolge in senso anti-classicista. Infatti il suo modo di comporre è esso stesso “antico”, anteriore alla gabbia prospettica rinascimentale. Più che della pittura gotica o comunque medioevale, a cui in alcuni casi è stato avvicinato, egli risente di un modo di comporre tipico dell’antichità classica, in quanto privilegia l’attenzione per l’oggetto rispetto alla coerenza spaziale. La prospettiva quindi non è assente ma non segue un criterio di coerenza geometrica, essa è un attributo locale e non l’impianto spaziale generale della visione. Ci troviamo a che fare con una prospettiva intuitiva che a volte può sembrare simile a quella geometrica e che altre volte se ne discosta vistosamente. L’importanza maggiore è destinata alle figure o agli oggetti. La cultura pittorica della Grecia classica voleva dipingere le persone e le cose come sono e non la semplice apparenza del mondo che si dà nella visione. De Chirico, come i greci, è interessato a questa qualità metafisica delle cose. A questo proposito risulta particolarmente significativa un’osservazione su di lui fatta da suo fratello, Alberto Savinio, sulla rivista «Valori plastici» in cui rimarca il fatto che i suoi quadri non vogliono descrivere la semplice presenza dell’oggetto, ma vogliono giungere “al di là” dell’oggetto stesso e cioè alla realtà metafisica delle cose.