Classico e Classicismo (introduzione)

L’ antichità classica

Come espressione di uso comune il termine classico sta ad indicare un riferimento alla cultura ellenico-romana dell’età antica. Con ciò non va inteso che si stia parlando di un semplice periodo storico che va approssimativamente dall’VIII sec. a.C. fino al VI sec. d.C. Infatti non tutte le espressioni artistiche e culturali presenti in quel periodo sono giudicate classiche. Il caso più eclatante a questo riguardo è costituito dalla cosiddetta arte paleocristiana, per la quale gli storici dell’arte pongono un netto distinguo con la contemporanea arte pagana, ritenuta ancora classica o tutt’al più tardo-classica. Allo stesso modo vengono escluse dal classicismo le varie componenti barbariche pur presenti all’interno dell’impero romano. Quindi non viene ritenuta classica tutta l’arte celtica di quel periodo. Ci accorgiamo allora che la denominazione di classico non è tanto usata per contraddistinguere un periodo storico, ma una specifica cultura contrassegnata, non tanto dall’adozione di una lingua o di una forma di governo o di diritto, quanto da una forma di orientamento religioso, consistente nell’adozione del politeismo “olimpico” e delle forme di espressione che esso ha elaborato (dall’arte alla filosofia). In questo senso il periodo classico si inaugura con l’apparizione della statuaria greca relativa ai santuari “pagani” e termina coi il diffondersi della pittura e della scultura cristiana che si impone unitamente all’emergere delle culture figurative delle regioni “periferiche” dell’impero (il fenomeno è illustrato in modo esemplare da (Bianchi Bandinelli). Ma la vitalità del mondo classico che ha ispirato poi molte generazioni in età cristiana non è dovuta solo alla ripresa del modello religioso che la sottende (e quindi al politeismo che in realtà non viene più riabilitato in modo esplicito) ma anche e soprattutto a una caratteristica della cultura politeista ellenico-romana capace di garantire ampi spazi di autonomia delle istituzioni civiche, giuridiche e culturali dal controllo o dalla finalità religiosa. Si pensi alle tante forme di espressione culturale svincolate dallo stretto riferimento alla religione come lo sono la retorica la filosofia e la poesia (anche le tecniche figurative hanno risentito di questa libertà andando a rappresentare atleti, scene di genere come la natura morta o i paesaggi della pittura compendia e altri motivi non religiosi). Questa situazione culturale, connessa anche alla grande complessità raggiunta dalla società ellenico-romana, sarà alla base poi dell’idea di “laicismo”. E non a caso nella modernità si ritroverà spesso l’arte classica presa a modello e a vessillo di quelle forze della società interessate a promuovere questo tipo di cultura (in modo particolare ciò è visibile nel fatto che il classicismo si afferma come stile internazionale adottato dalla borghesia, e ancor più nel legame esplicito, formulato da alcuni propugnatori del neoclassicismo, tra classicità e idea dello stato laico e repubblicano).


Il Classicismo nell’antichità

Gli antichi non parlavano né di classico né di classicismo, ma la moderna storia dell’arte ha voluto intravedere, anche all’interno della cosiddetta arte classica, un periodo più classico degli altri, ripreso nella produzione stilistica all’interno della stessa età antica. Questo è dovuto soprattutto all’analisi di Winckelmann che attraverso l’introduzione di parametri storico formali ha identificato diverse sequenze stilistiche all’interno dell’arte antica, proponendo di conseguenza una definizione più ristretta dell’ arte classica. Infatti, in questa accezione, l’arte classica vera e propria va identificata con la produzione figurativa greca del V e IV sec. a.C.. Essa è preceduta dall’arte arcaica e seguita dalla baroccheggiante arte ellenistica. Tale triade stilistica intende inoltre rappresentare le tre fasi del ciclo evolutivo della forma artistica, con l’arte arcaica che ne rappresenta la fase primitiva, l’arte classica che ne rappresenta la maturità e infine con l’arte ellenistica che ne rappresenta la corruzione e la decadenza. A seguito di queste tre fasi si possono dare continuità riprese o l’avvio di un nuovo ciclo, ma ciò che è chiaro è che la fase classica viene ad essere in questo schema quella privilegiata per equilibrio e sobrietà. Sembra cosi che all’interno dell’arte antica questi stessi pregi venissero riconosciuti a questo stile e ne abbiano fatto il modello di successive riprese ed imitazioni. In realtà occorre considerare che, sebbene certe sculture del periodo classico abbiano costituito un modello di base per tutta la scultura antica a venire, nell’antichità è stata di volta in volta ripresa e copiata anche l’arte arcaica ed ellenistica. Questo però ha spinto gli storici dell’arte antica a porre l’accento sui cosiddetti “classicismi” dell’antichità. Essi vengono reperiti nelle tendenze dell’arte ateniese del 150 a.C. in cui vengono ripresi temi e stilemi fidiaci (fenomeno letto da alcuni come espressione di rivendicazione nazionalista, avendo la Grecia perso la libertà), o ancora nel “classicismo augusteo” e poi in quello traianeo, adrianeo e in generale in tutta la dinastia giulio-claudia. Il periodo aureo dell’arte greca si viene così a collegare con quello altrettanto aureo dell’impero romano contribuendo a suggellare l’idea dello stile classico come stile legato allo splendore politico, economico e militare. Il classico allora si presta facilmente a divenire sinonimo di razionalità, solarità, equilibrio il che ha influito non poco a dare della cultura “classica” un’idea patinata e coreografica tutta intrisa di valori positivi, la qual cosa ha messo in ombra tutte le caratteristiche irrazionali della cultura greca, riscoperte solo con l’opera di studiosi come Nietzsche e Dodds.


Il classico nel medioevo

Nel medioevo la tradizione classica si interrompe. Fin dal Cinquecento si afferma l’idea di una cancellazione della tradizione classica causata dalle invasioni barbariche esemplificate nei Goti, portatori appunto dell’arte Gotica. A seguito di questi lunghi secoli di buio sarebbero arrivate poi le ricerche degli artisti umanisti.

Ecco così che il medioevo si vede attribuita sbrigativamente nella mentalità comune l’etichetta di evo anticlassico. il discorso sull’eredità classica nel medioevo è particolarmente complesso, ma ci limiteremo a far notare come in esso si possano distinguere due atteggiamenti fondamentali. Da una parte vanno infatti sottolineate i tanti aspetti che evidenziano una continuità con l’organizzazione dell’immagine propria del periodo classico. Si tratta naturalmente di particolari non eclatanti che sono pertinenti al modo dì organizzare l’immagine, di disporre le figure o di disegnare le posture, di percepire lo spazio i quali ci fanno capire che una tradizione, un modo di fare è mutato molto nel corso del tempo ma affonda le sue radici in quella tradizione antica e che non si è verificata una rottura completa in cui vedere ~ l’affermazione di una cultura straniera. Questa tradizione ha dunque una continuità col passato classico, ma è andata alla deriva in una maniera tale che quando l’umanesimo riscoprirà “filologicamente” l’antichità essa ne sembrerà quasi l’opposto. Dall’altra parte invece già nel medioevo troviamo delle riprese per così dire “archeologiche” della tradizione classica. Infatti in casi come questi lo scultore dà per scontata la diversità dallo stile antico e lo riprende, studiandolo dai sarcofagi e da altre testimonianze, in quanto esempio di perizia esecutiva e di resa formale.

Questo è ad esempio il caso di Nicola Pisano il cui atteggiamento di riferimento alle fonti antiche preannuncia quello dell’umanesimo.


Umanesimo e rinascimento

Nell’Umanesimo si inizia una ricerca delle testimonianze dell’antichità basata proprio sui presupposto della discontinuità con quella tradizione. I reperti del passato vengono esaminati e studiati con l’intento di ricomporre il quadro della loro originale grandezza. In particolare nel ‘400 una serie di artisti iniziano a recarsi a Roma per disegnare i monumenti rimasti e per copiare affreschi e decorazioni, bassorilievi e stucchi. Questo tipo di interesse trova un suo antecedente nel cosiddetto “Mirabilia” medioevale (la cui prima redazione risale probabilmente al XII sec. e che ha conosciuto tra il X1V e il XV sec. successive revisioni). Si tratta una sorta di guida turistica dei monumenti antichi più in vista e meglio conservati che venivano segnalati all’attenzione del visitatore o del pellegrino colto. Tra questi monumenti vengono segnalati ad esempio le mura, gli archi trionfali, i palazzi imperiali, le tenne, le colonne antonina e traiana i teatri ecc.. Ben conosciuti erano anche gli obelischi, il colosseo e il Pantheon. Tutti elementi che concorro a formare una mappa ideale di Roma riscontrabile ampiamente nelle pitture del Quattrocento. Quindi gli artisti umanisti giungono a Roma attratti da simili testimonianze ma non, si accontentano di una suggestione turistica. Sappiamo di un pittore che si lasciava calare con una fune dalla cima della colonna traiana per copiarne pazientemente i rilievi. Ma la vera novità è costituita dalla riscoperta delle decorazioni antiche che diverranno note con il nome di “grottesche”. Il termine deriva dal fatto che gli artisti scendevano attraverso delle buche nei locali dei palazzi antichi e della Domus Aurea in particolare e h ne ritraevano le bizzarre decorazioni. Tutti questi fattori concorrevano a dare un’immagine molto più ricca e articolata dell’antichità, che uniti alle ben note vicende della riscoperta della letteratura antica e della diffusione della cultura platonica portata dai profughi bizantini hanno concorso a realizzare quel fondamentale evento per la cultura occidentale che tutti conosciamo. L’antichità è in questo periodo osannata e presa ovunque a modello. È in questo momento dunque che più probabilmente va posta la nascita dell’accezione moderna di “classico”. Infatti il termine “classico” deriva da una voce latina che sta a significare qualcosa “di prima classe”. Esso quindi non nasce da una connotazione di carattere storico volta a identificare il periodo antico, ma come caratterizzazione di tipo qualitativo riguardante ciò che è eccelso e quindi l’arte antica- che lo è per eccellenza. In realtà l’Umanesimo e il Rinascimento sono poco -consapevoli di essere dei classicismi. La loro operazione di ristrutturazione dell’ordinamento del sapere sulla base della ripresa di quello antico è così forte e ampio da porsi quindi ~ base stessa della pensabìlità di un classicismo. È in questo momento che vengono create una serie di categorie mentali e istituzionali che sono alla base delle concezioni del classico e del classicismo. Sarebbe più giusto dire che l’intento dei rinascimentali era semplicemente quello di arrivare (anche loro) all’eccellenza e quindi alla classicità, in un rapporto che non è solo di ammirazione per il passato ma anche di competizione. Tale ambiguità dell’atteggiamento rinascimentale si riflette non a caso anche nella struttura del pensiero storico-artistico che ci tramanda l’idea di un Rianascimento inteso sia come movimento classicistico, che come movimento esso stesso Classico, in quanto capace di strutturare modelli e campioni dell’arte tanto grandi da essere ammirati e imitati nei secoli a seguire alla stessa stregua di quelli antichi. All’opera di diffusione e consolidamento di una simile mentalità nel campo delle arti va a contribuire in maniera determinate anche un’istituzione che nasce a cavallo del nuovo secolo e che è l’Accademia d’arte. Sarà essa a rappresentare, meglio di ogni altra quegli ideali e quei valori che medieranno alle future generazioni dell’arte i concetti di classico e classicismo.


Il seicento

Il Seicento fornisce il compimento del quadro del pensiero rinascimentale per quanto concerne l’ambiguità tra modelli antichi e modelli moderni , ma allo stesso tempo inaugura il primo classicismo vero e proprio inteso come corrente artistica. infatti allora si intravedono due tendenze fondamentali, da una parte il caravaggismo teso allo studio diretto dei modelli dal vero e dall’altra il classicismo volto a studiare e imitare i modelli della grande pittura e della grande scultura, modelli costituiti non a caso, tanto dagli antichi quanto ai moderni. In tal senso la differenza ad esempio tra l’atteggiamento manierista di un Vasari e quello classicistico di un Bellori, sta nella posizione militante del primo, tutto sbilanciato a favore del grande artista, a lui contemporaneo, Michelangelo, che diviene la lente stessa attraverso cui guardare alla tradizione antica. Diverso è l’atteggiamento più distaccato del Bellori che cerca di ritrovare in Raffaello una sintesi dei valori rinascimentali, che non oscuri il riferimento allo studio diretto delle fonti antiche.

Ecco quindi che il classicismo seicentesco non è più solo, come il manierismo raffaellita, un solo riferirsi agli esempi del maestro, ma un invito a nutrirsi delle fonti antiche e moderne per nuove e diverse soluzioni. Significativo a questo riguardo è il caso del maggiore tra i classicisti seicenteschi, rappresentato da Pussin, che rielabora liberamente temi tratti dalla pittura rinascimentale italiana (in cui si spazia da Raffaello, a Giulio Romano e a Tiziano) assieme a una forte dose di cultura antiquaria, che ha avuto modo di farsi durante i suoi soggiorni romani.


Il Neoclassicismo

nel corso del Settecento la cultura classicista seicentesca ha assunto ormai i caratteri del sapere delle accademie d’arte, sempre più lontano da un rigoroso riferimento alla cultura antica. Il classicismo accademico è ormai il modus operandi istituzionale che in forme più o meno barocche si è imposto nella cultura ufficiale europea. Parallelamente allo sviluppo delle accademie si è però costituito intanto un nuovo tipo li sapere interessato specificamente alla ricerca dei pezzi e delle testimonianze antiche. Signori e facoltosi nobili hanno promosso campagne di scavi che hanno fatto emergere una grande quantità di materiali; si sono formate prestigiose collezioni, visitate da numerosi viaggiatori e si sono anche create nuove figure di esperti antiquari, interessati sempre più specificatamente al dato archeologico e storico, anche al di la del semplice interesse artistico. Di questo secolo sono ad esempio gli scavi di Pompei che suscitano una vasta eco in tutto il mondo culturale dell’epoca. il neoclassicismo rappresenta così un’ulteriore rottura con una tradizione, vista come corrotta e inservibile, per rivolgere nuovamente lo sguardo a una ripresa filologica delle antichità. In questo contesto però abbiamo delle sostanziali differenze con il Rinascimento. L’artista neoclassico non si sente più in competizione con gli antichi, essi costituiscono ancora un modello assoluto, ma l’antichità non è vista più come un tutto unico da riprendere e da ammirare. E in questo periodo infatti che nasce un nuovo criterio selettivo per analizzare l’arte antica basata sull’identificazione di parametri storico-stilistici. Winckelmann distingue, in base allo stile delle sculture, differenti periodizzazioni dell’arte antica ed è così in grado di ricostruire approssimativamente una storia dell’arte antica fondata sul riscontro tra documentazioni letterarie e testimonianze scultoree. Si evidenzia così il valore dell’arte greca rispetto a quella romana e, all’interno di essa, si può parlare ulteriormente di un periodo classico corrispondente all’arte del V e IV sec, a. C.. Questi parametri che iniziano a venire identificati da Winckelmann si riaffermeranno e si rafforzeranno nei tempi successivi fino a costituire l’inquadramento che ancora oggi sottostà agli studi di storia dell’arte greca e romana.


il “classico” come categoria

L’analisi storico-stilistica, se da una parte ha portato a una maggiore precisazione storica dei periodi a cui si riferisce, dall’altra ha consentito anche il suo uso in senso extratemporale. Il ripetersi di tendenze ispirate al classico ha reso possibile infatti che esso venisse eletto a rappresentare una polarità dello spirito dell’arte occidentale da contrapporre ora al barocco e ora al romantico. il classico viene così identificato nella tendenza alle forme razionali, statiche e limpide di contro a quelle irrazionali e dinamiche rappresentate dalle seconde. In tal senso va inquadrata l’analisi stilistica di Wolfflin che in testi come Classico e barocco o come I concetti fondamentali della storia dell’arte, da vita a un’articolata fenomenologia formale dei parametri del classico. Allo stesso modo l’opposizione classico/romantico diverrà quasi un luogo comune della cultura ottocentesca. Non va dimenticata poi la fortuna del termine classico impiegato nella sua primitiva accezione di eccelso, universalmente valido che ne consentirà ad esempio l’applicazione alla musica per indicare anche l’opera di autori romantici come Beethoven e Brahms.


Il classico nelle avanguardie

Se il classico e il classicismo vengono identificati con la cultura accademica o con i valori universali dello spirito umano, allora le avanguardie artistiche, che si pongono in un ruolo critico e negativo rispetto alle istituzioni e ai luoghi comuni della cultura, dovrebbero rappresentare il luogo anticlassico per eccellenza più ancora dello stesso romanticismo. Ma ciò non significa che l’arte delle avanguardie non vada per questo ad interessarsi dei topoi della cultura classica e ciò non significa che in essa non siano riscontrabili talvolta quelle connotazioni stilistiche proprie del ‘classico’ e che consistono nella razionalità, staticità, limpidezza ecc.. Fino a che punto però si può parlare di classicismo all’interno delle avanguardie?

Il tipo più frequente di ripresa del materiale classico all’interno delle avanguardie va sotto la forma della citazione. Calchi in gesso di statue antiche vengono immessi nelle opere talvolta con un intento ironico e dissacratorio nei confronti dei valori accademici, ma non è sempre così succedere che essi vengano impiegati per provocare effetti di estraneamento, ma può succedere anche che essi vengano recuperati positivamente per farne scaturire una forza poetica (una volta che siano stati messi a contrasto con i materiali della civiltà industriale). Altre volte può succedere,come nel caso dei fratelli De .Chirico, che venga rivendicato palesemente un vivo interesse per l’antichità e per i valori che essa rappresenta, valori che non sono più quelli ingenuamente positivi e razionali del neoclassicismo e che si caricano di inquietudini inconsce .Va considerato infatti che tra l’Ottocento e il Novecento a partire da Nietzsche, Rohde si è consumata un’altra rivoluzione nella considerazione dell’antichità classica. Essa non viene vista più solo come luogo della razionalità, ma se ne scoprono gli aspetti irrazionali connessi al culto e ai riti che vengono ancor più accentuati dalle comparazioni svolte dagli studiosi di etnologia (a partire da Frazer fino a Dodds e a Burkerdt) che pongono in rilievo quelle che fino ad allora erano considerate come le ombre del pensiero classico. Tutto ciò ha avuto delle ripercussioni nel mondo dell’arte, anche se ha interessato meno le arti figurative, di quanto non abbia fatto invece con il teatro, in cui l’antropologia ha comportato forti cambiamenti nella lettura e nella rappresentazione della tragedia antica.


La modalità

Per quanto riguarda sempre il classico come categoria stilistico-formale al di là degli specifici riferimenti ai soggetti dell’arte antica, capita di vedere eticchettate come classiche anche le estetiche e le poetiche di esperienze d’avanguardia del tutto aniconiche. L’esempio più comune è quello di Mondrian la cui semplicità, razionalità e chiarezza vengono identificate come espressioni di una figuratività classica. Più recentemente un movimento anch’esso del tutto aniconico si è visto attribuito spesso la connotazione di una certa classicità. Stiamo parlando della minimal-Art. Anche in questo caso sono la semplicità, la razionalità, la staticità e non ultima la monumentalità delle forme, che hanno fatto sì che si potesse intravedere una forma classica anche al di là di ogni riferimento esplicito all’arte antica.


Classico o classicismo?

Come si è visto classico e classicismo non costituiscono mai concetti chiaramente distinguibili: essi si compenetrano sempre a vicenda. Tutti i classicismi finiscono sempre col divenire in qualche modo dei classici e ogni classicismo si porta con sé le visioni del classico dei precedenti classicismi, anche quando le contesta. Si può parlare chiaramente di classicismo dove un rinnovato interesse per la tradizione antica sopraggiunge in modo consapevole ed esplicito contestando le visioni precedenti. Esiste però tutta un’altra serie di casi in cui le riprese dell’arte antica si giustappongono a quelle ad esempio dell’arte neoclassica, oppure dove una ripresa critica della tradizione classica si affianca ad alcuni aspetti di rivalutazione della tradizione antica. L’unica cosa certa è che esiste, ad esempio nelle avanguardie, una ripresa del classicismo e, attraverso di esso, della tradizione classica in numerosi e diversi casi. Se questo vada poi considerato come un vero e proprio classicismo alla stregua di quelli precedenti è la questione che si chiarirà nel libro.


I confini dell’avanguardia: De Chirico e il surrealismo

Una volta chiarito cosa si intende per classico e per classicismo resta da chiarire il concetto di avanguardia. Quest’ultimo concetto può infatti apparire persino ovvio nel caso di movimenti come il futurismo o il dadaismo, ma il problema si pone riguardo all’estensione di tale appellativo all’opera di artisti o a movimenti che hanno caratteristiche diverse da quelli appena citati. Nel nostro caso, parlare di classico ci porta subito ad imbatterci in autori come Giorgio de Chirico la cui appartenenza all’avanguardia è tutt’altro che ovvia. Sappiamo che la sua posizione degli anni Venti non lascia dubbi al riguardo. Egli è il paladino della “buona” pittura di contro alle sperimentazioni avanguardistiche; tuttavia la sua posizione rimane per molti versi ambigua. Mario de Michelis non considera ad esempio la metafisica tra i movimenti delle avanguardie storiche. Tutto ciò è ben comprensibile: De Pisis è tutto sommato un pittore di stampo tradizionale, Carrà è un caso eclatante di negazione del passato atteggiamento avanguardistico. Costoro, predicando un ritorno ai valori di una chiara espressione pittorica basata sulla cultura accademica, si pongono in aperta contraddizione con lo spirito delle avanguardie e in sintonia con il clima del ritorno all’ordine. Se da una parte abbiamo un De Chirico conservatore dall’altra parte è allo stesso modo accreditabile la tesi che vede in De Chirico uno dei pochi casi di genuina presenza italiana negli ambienti della prima avanguardia parigina e quindi internazionale. Anzi la fortuna di De Chirico inizia proprio in quegli ambienti. La prima sua mostra in uno spazio di una certa importanza è proprio quella tenuta a Parigi al Salon d’Automne. I suoi primi contatti con un circolo di artisti e intellettuali sono proprio quelli avuti con Apollinaire e di conseguenza con i fauves e con i cubisti. De Chirico deve molto alle istanze assorbite in quell’ambiente e gli deve innanzi tutto il suo successo. Inoltre la pittura di De Chirico deve una parte consistente della sua importanza all’influenza che essa eserciterà sui futuri membri del movimento surrealista, la qual cosa lo lega, volente o nolente, ancora una volta all’avanguardia. Certo, De Chirico polemizzerà con i surrealisti, i quali non esiteranno a rispondergli adeguatamente, ma anche in queste polemiche egli si dimostra ancora una volta immerso fino al collo in quel clima litigioso che è tipico delle avanguardie. Lo stesso surrealismo è un’avanguardia del tutto particolare. Infatti è un movimento decisamente tardo rispetto agli altri e proprio questa posterità gli da modo di farsi un’idea sintetica dell’avanguardia, di tracciarne quasi il modello o la forma ideale che poi esso tende ad incarnare. Si ha quindi una sorta di canonizzazione dell’avanguardia e questa forma canonica sarà il prototipo delle esperienze future che scaturiranno nella cultura europea fino agli anni Sessanta. Si può dire comunque che il surrealismo riassume e congela l’immagine dell’avanguardia storica rimanendo per i posteri l’avanguardia par excellence, che coniuga rivoluzione artistica e rivoluzione politica.


Giorgio De Chirico

Parlando di “classico nelle avanguardie” De Chirico costituisce nel bene e nel male un punto di partenza ineludibile. Per capire in che modo il classicismo, l’eredità classica antica e l’avanguardia confluiscono nell’opera di quest’artista, per sua stessa definizione, enigmatico, occorre andare oltre il piano dell’interpretazione formale delle sue opere. Bisogna scavare più a fondo e reperire i significati che si nascondono nelle sue composizioni e che quasi sempre sono significati che hanno un nesso con la vita dell’artista. In De Chirico l’aspetto biografico non riveste il carattere della semplice curiosità per l’aneddotico o peggio per il pettegolezzo. In lui gli aspetti biografici assumono un rilievo ben maggiore di quanto non possa esserlo per l’artista che fa ad esempio arte astratta o arte politica, perché la biografia non è solo ciò che accompagna la produzione artistica, ma è soprattutto ciò che si ritrova all’interno delle sue composizioni, le quali possono essere viste come accumulazioni di ricordi (ricordi di fatti reali, di visioni libresche, di fantasie infantili, di stati d’animo, di impressioni). Il primo elemento da cui non possiamo prescindere in relazione al classico, è il fatto che De Chirico nasce in Grecia. Egli però non è greco, è figlio di una nobile famiglia italiana. Contravvenendo a quella che allora era ancora la norma negli ambienti aristocratici il padre di Giorgio de Chirico decise di lavorare e di farlo in un settore tecnico. Egli infatti compì studi di ingegneria e quindi si recò in Grecia per attendere ai lavori di costruzione della linea ferroviaria Atene-Salonicco. Questi primi scarni accenni già delineano un quadro gravido di conseguenze. Infatti abbiamo l’unione di tre elementi: la Grecia, patria incantata degli dèi omerici; la cultura aristocratica legata alla tradizione e alla cultura accademica e poi la tecnica legata allo sviluppo tecnologico, macchinico, industriale. Questi tre elementi assumeranno un ruolo chiave nella composizione della poetica metafisica del “pictor optimus”. L’infanzia di De Chirico è profondamente segnata dalla figura del padre, dal suo ambito di lavoro (le stazioni, i treni) dai suoi strumenti (righe, squadre, tavole), e soprattutto è segnata dalla morte prematura di quest’ultimo. Tutti questi elementi giocheranno un ruolo importantissimo nell’immaginario metafisico di De Chirico. Si pensi che Picasso lo definirà “il pittore delle stazioni”. In De Chirico, l’elemento tecnologico non viene salutato però con lo stesso entusiasmo e lo stesso ottimismo con cui viene accolto dai futuristi. La tecnologia non è l’annuncio del nuovo, non ha un aspetto avveniristico, ma al contrario è impregnato della dimensione nostalgica e melanconica del ricordo. Dicevamo che la morte del padre è stato un avvenimento traumatico della sua infanzia che ha portato l’artista a idealizzare la figura del padre, e infatti quest’ultimo poi ricompare a più riprese nei quadri metafisici, attraverso il tema del ritorno del figliuol prodigo o attraverso quello del filosofo. Al padre Giorgio de Chirico deve anche i suoi primi passi di disegnatore e pittore. Racconta egli stesso che una volta da bambino stava provando a copiare dei volti e non vi riusciva. Il padre allora, che aveva alcuni rudimenti di disegno, avvedutosi di quanto stava accadendo, gli spiegò un piccolo trucco per riuscire ad orientarsi nella composizione del viso, tracciando una croce le cui assi indicavano quella degli occhi e quella del naso. Ora questo fatto è interessante per due motivi: da una parte perché l’artista portò con sé il ricordo di questa astuzia compositiva, tanto che la ritroviamo anche in alcuni manichini metafisici; dall’altra parte perché apre un discorso che per il discorso qui trattato assume un’importanza maggiore. De Chirico inizia la sua esperienza nel disegno attraverso la copiatura di riproduzioni di altri disegni o dipinti. Niente di strano, si dirà, questo tipo di educazione al disegno attraverso la copiatura ha rappresentato il modello dominante di educazione alle arti figurative fino a mezzo secolo fa. Spesso però troviamo nelle biografie degli artisti un desiderio di evadere dai modelli, oppure scopriamo che l’artista inizia a disegnare per dare libero sfogo alla fantasia e solo in un secondo momento si applica alla riproduzione dei modelli passati per perfezionare la propria tecnica. Altri ancora scoprono la propria vocazione per il disegno ritraendo persone o cose che lo circondano in modo sbalorditivo. De Chirico non ha questa irrefrenabile tendenza al disegno, non è particolarmente dotato e non rende manifesta la sua inclinazione producendo disegni stupefacenti. La storia di De Chirico non assomiglia in nessun modo a quella dei grandi geni della pittura, ma al contrario il suo atteggiamento sembra sempre vicino a quello dell’amateur. De Chirico dunque copia i modelli, li copia da piccolo quando inizia ad interessarsi al disegno, li copia con un maestro personale che i genitori assumono per lui, li copia ancora alla scuola d’arte di Atene, dopo la morte del padre, ancora all’Accademia di Belle Arti di Monaco e infine, perfino dopo il successo, egli continua a vagare per musei per studiare e copiare i maestri dell’arte rinascimentale e barocca, i quali da giovane non gli avevano fatto alcun effetto, se non quello di sembrargli delle grandi illustrazioni libresche. Va detto tra l’altro che De Chirico, che si autonomina “pictor optimus”, non fosse poi così dotato in materia di pittura. Anzi sembra che sia sempre stato un allievo scadente. Il suo farsi sacerdote della buona pittura, oltre ad apparire come una pretesa consentita solo dal fatto che egli si riferiva al pubblico dell’avanguardia in cui la bella pittura era stata disertata, sembra ancora legata a un atteggiamento vagamente dilettantesco. Ecco probabilmente in questa chiave di cultura della copiatura e di dilettantismo va interpretato anche il suo rapporto col classico.

Venendo quindi alla questione del classico in De Chirico dobbiamo premettere che esso si articola i varie modalità. Da una parte sta il rapporto con la classicità intesa come antichità e quindi incarnata dalla Grecia antica le cui vestigia circondano l’artista fin dall’infanzia. De Chirico però non sembra particolarmente segnato da questa presenza, almeno da quanto si evince dalla sua produzione letteraria. Diversamente possiamo notare che la presenza di templi e di altri elementi dell’antichità ricorre spesso nella sua produzione figurativa. Le atmosfere dei luoghi greci lo condizionano certamente, ma De Chirico scrittore parla molto più spesso della Grecia moderna piuttosto che di quella antica. Alla Grecia moderna deve la sua formazione di pittore. E’ soprattutto nella scuola di disegno che egli viene a contatto con l’antico nella forma appunto della copiatura. De Chirico è convinto che la media dei pittori greci sia molto più alta in qualità di quanto non lo sia quella degli altri europei da lui incontrati in seguito. Nella scuola greca l’elemento della copiatura incarna la totalità dell’insegnamento. Egli stesso descrive così la sua istruzione al Politecnico: «Un pessimo sistema è quello usato oggi di far lavorare il giovane allievo direttamente dal vero. Al Politecnico di Atene si facevano quattro anni di disegno e di studio del bianco e nero da stampe e da sculture prima di lavorare direttamente da un modello vivo. Nel primo anno si copiavano figure stampate; nel secondo sculture, ma soltanto teste e busti, nel terzo e quarto anno ancora sculture, ma di corpi interi o gruppi di figure» . Il copiare e il riprodurre hanno una grande importanza nel caso del classico, perché lo stesso concetto di classico nella sua ambivalente realtà di classicità e classicismo richiama in sé quello di riproduzione o copiatura. Il classicismo è infatti sempre imitazione di ciò che viene ritenuto classico così come qualcosa è ritenuto un classico al momento in cui lo si copia, in quanto lo si è elevato a modello. Solitamente i classicismi poi si traducono in una sintesi tra tendenze innovative e ripetizione del modello. In De Chirico tutto è ripetizione, tutto è copia, è l’unione insolita di queste copie, messe accanto le une alle altre come se fossero figurine a creare un effetto spiazzante e innovativo. Il pittore infatti provoca una coabitazione di elementi inconcludenti come se fossero elementi di un rebus. Ci troviamo allora tra la bellezza dell’incontro tra un ferro da stiro e un ombrello su una tavola operatoria e l’indizio di una trama nascosta, di un enigma. Il maestro ha ironizzato su questo clima da romanzo giallo o di attesa di un disastro imminente presente nei suoi quadri. Ma la copia e la ripetizione in lui non è rivolta solo alle opere classiche o alle immagini libresche. Infatti quando, dopo la morte del padre, la famiglia si stabilisce a Monaco di Baviera, l’artista ha modo di frequentare l’Accademia di Belle Arti di quella città. Lì De Chirico non copia solo i modelli classici, ma comincia a produrre le sue prime composizioni personali. In realtà queste pitture non hanno uno stile molto personale, poiché sono pesantemente condizionate dall’influsso della pittura del pittore simbolista Arnold Böcklin. Alcune tele tendono quasi a ricalcare le opere böckliniane, e si può constatare che alcune tracce di questo influsso rimarranno a lungo nella pittura dechirichiana: si pensi ad esempio al tema della figura ammantata vista di schiena, con la sua aura spettrale ed enigmatica, che verrà ripresa anche in opere del periodo metafisico. Per noi questo ha un interesse particolare, dal momento che i soggetti di Böcklin sono di tipo classico nel senso che rievocano elementi del mito greco o comunque della grecità, anche se il suo stile è tutt’altro che classico nel senso del classicismo accademico. L’approccio di quest’ultimo alla grecità è infatti fortemente irrazionale. Questo atteggiamento va ricondotto alla cultura tedesca di fine Ottocento che rompe con la tradizione classicista e neoclassica la quale tende a vedere nella cultura ellenica ed ellenistica l’espressione della razionalità, dell’equilibrio e dell’armonia. Già nel Settecento, in arte, autori come Füssli, partendo dalla cultura neoclassica, avevano esorbitato in direzione di un’espressione fortemente visionaria e irrazionale. Questo però allora aveva comportato anche un’evasione dalla cultura classica tout-court. Diversamente solo nell’ambiente filologico classico dell’Ottocento, con autori come Nietzsche, Rohde e Backofen si assiste a un’indagine sistematica degli aspetti più oscuri e irrazionali della cultura greca. Questo clima è interpretato da autori coevi come Böcklin, ma lascerà una traccia indelebile nella cultura europea successiva fino ai nostri giorni. Tra questi studiosi, quello che ha lasciato il segno più profondo è ovviamente Nietzsche, il quale costituisce la più amata lettura filosofica di De Chirico, a cui quest’ultimo affianca quella di Schopenhauer che, non a caso, è considerabile come uno dei maestri spirituali dello stesso Nietzsche. Anzi potremmo addirittura aggiungere che l’accoppiata Nietzsche-Schopenhauer diventerà tipica in alcune correnti della cultura europea del Novecento e ancora oggi ne abbiamo alcuni esempi in alcuni filosofi contemporanei, come nel caso del siciliano Manlio Sgalambro.

Gli anni di Monaco sono particolarmente significativi per comprendere il modo in cui questa eredità classica interagirà con l’avanguardia. Allora, nel primo decennio del secolo, Monaco sembrava essere la capitale della cultura europea. Questa infatti fu la ragione per cui la signora De Chirico decise di portarvi i suoi figli. Vista dalla Grecia, che era governata da una casa reale monacense, poteva anche sembrare più importante di quanto fosse in realtà. In effetti c’erano altri centri come Vienna che potevano contendergli questo primato. Tuttavia Monaco dette luogo a una Secessione monacense nella quale De Chirico vede l’origine di tutte le avanguardie e poi fu il polo di attrazione per artisti come Kandinskij, che ne fecero il centro di irradiazione del Blaue Reiter. La considerazione di De Chirico in ogni caso è sintomatica, perché prova che il nostro artista vedeva una continuità tra tendenze simboliste o tra la stilizzazione dello Jugendstil e la sperimentazione parigina, cosa che solitamente la critica tende a valutare diversamente. Quindi De Chirico, quando si reca a Parigi su invito del fratello, si approccia al dibattito parigino con il suo bagaglio intellettuale colmo di elementi classici, simbolisti e visionari portando un contributo diverso e originale nel milieu francofono (lo stesso De Chirico sottolinea come questa diversa natura fosse intuita con una punta di sospetto da parte dei suoi conoscenti parigini). Nella ricerca artistica francese la tendenza invece portava ad escludere qualsiasi riferimento al classico in nome di un desiderio di primitivismo. In un aneddoto si racconta che una volta Vlaminck mostrò una scultura africana trovata in un bistrot a Derain, dicendo che era quasi bella come la Venere di Milo, alché l’altro replicò che era bella come la Venere di Milo, per dirimere la questione fu allora invitato Picasso che disse che tutti e due si sbagliavano, perché essa era molto più bella della Venere di Milo . Indipendentemente dall’attendibilità di questa storiella, il fatto stesso che circolasse rendeva bene l’idea di quanto il trend di quel momento andasse nella direzione di un conclamato anticlassicismo, anche perché era totalmente mancata nella cultura francese quel mutamento di interpretazione della grecità che si era verificato in Germania e che la Francia stentava ad assorbire. Si pensi infatti che per assistere a un produttivo impatto del pensiero nicciano nella cultura francese bisogna attendere quasi la metà del secolo. De Chirico invece nelle sue Piazze d’Italia cercava proprio di rendere l’idea nicciana del meriggio. La sua visione delle cose, degli oggetti, afflitta da una inquietante melanconia, riflette ancora una volta una Stimmung nicciana. Alla cultura francese delle avanguardie, che in quel momento era tutta presa dal vitalismo e dal desiderio di concretezza della scomposizione cubista, mancava completamente quest’approccio. Per questo quando gli artisti francesi videro le opere di De Chirico rimasero incuriositi e in alcuni casi scioccati. De Chirico offriva una nuova chiave di lettura della memoria, della tradizione e del classico che vari artisti francesi non si sono lasciati sfuggire. Sembra infatti che la vista dei quadri di De Chirico sia stata vissuta come una specie di rivelazione da alcuni importanti artisti come Magritte, Ernst o Delvaux. In effetti la tradizione pittorica accademica e i retaggi classici, pur vissuti come giustapposizione di copie, vanno a formare una configurazione del tutto inedita e coerente proprio nella sua incoerenza logico-compositiva. De Chirico recupera le distorsioni prospettiche dell’antichità classica e le rivolge in senso anti-classicista. Infatti il suo modo di comporre è esso stesso “antico”, anteriore alla gabbia prospettica rinascimentale. Più che della pittura gotica o comunque medioevale, a cui in alcuni casi è stato avvicinato, egli risente di un modo di comporre tipico dell’antichità classica, in quanto privilegia l’attenzione per l’oggetto rispetto alla coerenza spaziale. La prospettiva quindi non è assente ma non segue un criterio di coerenza geometrica, essa è un attributo locale e non l’impianto spaziale generale della visione. Ci troviamo a che fare con una prospettiva intuitiva che a volte può sembrare simile a quella geometrica e che altre volte se ne discosta vistosamente. L’importanza maggiore è destinata alle figure o agli oggetti. La cultura pittorica della Grecia classica voleva dipingere le persone e le cose come sono e non la semplice apparenza del mondo che si dà nella visione. De Chirico, come i greci, è interessato a questa qualità metafisica delle cose. A questo proposito risulta particolarmente significativa un’osservazione su di lui fatta da suo fratello, Alberto Savinio, sulla rivista «Valori plastici» in cui rimarca il fatto che i suoi quadri non vogliono descrivere la semplice presenza dell’oggetto, ma vogliono giungere “al di là” dell’oggetto stesso e cioè alla realtà metafisica delle cose.


Alberto Savinio

Abbiamo appena citato Savinio, fratello di Giorgio de Chirico, il cui nome da battesimo era Andrea de Chirico, anche se in famiglia lo chiamarono fino all’età adulta Betty. La prima cosa che stupisce in Savinio è in effetti, il gioco dei nomi. Il nome proprio, che è l’altrare dell’identità, quello che si consegna alla memoria dei posteri, quello con cui si firmano le carte legali, in lui diventa un elemento di gioco. Le sue identità sono stratificate: all’anagrafe è Andrea de Chirico, in famiglia Betty, diminutivo da cui forse ha ricostruito Alberto a cui aggiunge Savinio che è un cognome che egli potrebbe aver tratto da un suo parente oppure dalla letteratura francese. Dunque Alberto Savinio è lo pseudonimo che usa per firmare le sue opere, ma nelle sue opere autobiografiche egli si identifica come Nivasio Dolcemare. Savinio è di tre anni più giovane di Giorgio e nasce anche lui in Grecia e vi trascorre l’infanzia. Savinio ripercorre questo periodo della sua vita in un libro intitolato L’infanzia di Nivasio Dolcemare. Qui troviamo subito alcune differenze rispetto al fratello maggiore. Se la tonalità affettiva che distingue la pittura metafisica di Giorgio è la melanconia e il perturbante, colto proprio nel significato freudiano di Uneimlich e cioè di una familiarità stravolta, quella di Savinio sta nell’ironia dissacrante, anche se questa dissacrazione è tale solo rispetto al comune buon senso. Infatti Savinio dipinge i genitori come esseri dalle sembianze di pesci, ma questo non vuol dire che non li ami. Savinio dipinge quindi l’antichità classica e soprattutto il mito o gli dèi mettendoli a contatto con gli elementi della cultura rurale greca moderna: con le palline di cacca degli ovini, con il caldo soffocante dell’estate, con lo sguardo stolido e atono degli animali. Può sembrare così che Savinio voglia prendere in giro la Grecia e gli dèi, ma lui non ironizza su di loro più di quanto non lo faccia su se stesso. La sua dissacrazione non è lo sfottò dell’illuminista convinto che si tratti di stolte superstizioni. L’idea di Savinio porta a pensare invece che l’ironia ci aiuti a cogliere proprio quel lato “spettrale” e metafisico che sfugge alla visione secolarizzata del mondo. Si potrebbe dire con uno slogan che se De Chirico coglie il rapporto con le cose e con l’antichità classica nello spirito della tragedia, Savinio lo fa in quello della commedia. Bisogna sempre tener presente però che la commedia saviniana non è appunto un semplice divertimento o una satira burlesca, ma che è quasi uno stile filosofico alla Luciano di Samosata, ma ancor di più è una ricerca socratica di elementi essenziali.

Savinio, da bambino, viene indirizzato agli studi musicali. Arrivato in Grmania continuerà a prendere lezioni e proverà anche a scrivere qualcosa senza troppo successo. Ad un certo punto la madre rientrò per periodo in Italia, Giorgio continuò la sua permanenza a Monaco e Andrea, in cerca di ambienti più favorevoli, si spostò a Parigi. Questo suo viaggio fu casualmente tempestivo, infatti proprio in quel momento a Parigi stava nascendo il fenomeno dell’Ecole de Paris. Egli, a differenza del fratello, quando arriva a Parigi, non ha maturato una formazione troppo dipendente dalle istanze del simbolismo e dello Jugendstil. Certo, anche Savinio, conosce e ama la pittura di Böcklin, legge Nietzsche e Schopenhauer, ma il suo carattere è molto più in sintonia con il vitalismo avanguardistico parigino. Di conseguenza il suo atteggiamento è molto più estremista e vicino alle esperienze di Dada. A Parigi Savinio viene conosciuto per alcune performance scatenate in cui suona il pianoforte in un modo talmente forte da farsi sanguinare le dita. Scrive anche un primo testo abbinato alla musica intitolato Les chants de la mi-mort, in cui descrive una figura senza volto simile a un manichino che probabilmente è all’origine dei manichini poi disegnati dal fratello. Savinio è più vicino al clima delle avanguardie e vi rimarrà anche in seguito a differenza del fratello che lo esorta a staccarsene. Se De Chirico è alla base di un’avanguardia come quella surrealista ma poi rifiuta di farvi parte, Savinio invece non ne costituisce il fondamento o uno membri più importanti, ma non provoca né secche rotture o ripulse o litigi. Questo succede anche perché lui, pur essendo presente di dagli inizi nei circoli d’avanguardia, approderà alla pittura solo molto tardi. Egli infatti inizia a dipingere solo dal 1926ca., quando cioè la metafisica aveva fatto storia e due anni dopo la nascita del movimento surrealista. Quando collaborava a Ferrara alla nascita del gruppo dell’arte metafisica non lo faceva da pittore, ma da musicista e da letterato. Ci si accorgerà solo relativamente tardi del fatto che Savinio sa essere anche un valente pittore. D’altronde la figura di Savinio è sfuggente proprio per il suo carattere poliedrico. La musica che avrebbe dovuto essere la sua strada viene presto accompagnata dalla scrittura. Poi alla scrittura e alla musica si accompagna la pittura e quindi il teatro, il tutto in una propensione all’estensione a tutte le sfere della creatività. Pare infine che abbia realizzato anche un progetto per un film. In tutte queste forme di espressione ritroviamo comunque il riferimento all’antichità classica. Anche in questo caso è doveroso distinguere l’antichità classica dal classicismo. Infatti in Savinio c’è ben poco di classicismo e accademismo. La sua espressione è sempre fuori dagli schemi. Egli costituisce un caso unico di artista totale che non si è concentrato tanto nel rompere delle barriere all’interno di una singola arte, quanto piuttosto a rompere quelle tra le varie arti. Egli non agisce in nome di uno sperimentalismo linguistico o di una ricerca formale. L’arte di Savinio non è autonoma, è al servizio di una organica visione immaginifica che non può limitarsi ad esprimersi con un solo mezzo. Savinio ha scoperto il suo “mundus imaginalis” e cerca di divulgarlo o comunque di renderlo percepibile in tutte le maniere possibili. Egli è quindi soprattutto un artista di contenuto, che impernia il suo lavoro su una personale visione del mondo di cui le varie arti offrono le finestre per affacciarvisi. E’ per questo motivo che ritroviamo espressi con canali diversi gli stessi temi. Savinio come dicevamo arriva a Parigi nel 1910, l’anno seguente viene raggiunto dalla madre e dal fratello. In quel periodo De Chirico deve svolgere una serie di cure per dei disturbi di probabile origine psicosomatica che lo affliggevano allo stomaco. A Parigi insieme cercano di farsi conoscere. Il successo arride a Giorgio ed entrambi cominciano a frequentare la casa di Apollinaire tramite il quale Andrea organizza il suo primo concerto di musica d’avanguardia nel 1914. E’ in questa occasione che Andrea adotta lo pseudonimo di Savinio per distinguersi dal fratello pittore. Già in quel frangente compare la vena classica ma non classicista di Savinio. Egli infatti si definisce “Artisan dionysiaïque”. Ancora Nietzsche dunque. La musica di Savinio, che chiama “Musique métaphysique” vuole essere una sorta di corrispettivo in musica delle pitture del fratello. Nella composizione, in mezzo a dissonanze squilibranti, compaiono stralci di motivi di musica popolare, ricordi di motivi familiari che si agitano su una base di disarticolazione spaesante. Anche qui abbiamo a che fare con procedimenti di copiatura che vengono gestiti in una sorta di “taglia e incolla”, che però non è il semplice collage dadaista. Non si tratta semplicemente di provocare il non-sens fine a se stesso. Nell’accumulazione saviniana questi elementi dissonanti vengono uniti in funzione di una precisa visione del mondo metafisico che i due fratelli in questo momento condividono appieno. L’unica differenza che si può notare già a questo punto è quella tra la dimensione statica e sospesa di De Chirico, in cui tutto sembra fuori dal tempo, bloccato in un flash di un ricordo, e la dimensione dinamica di Savinio. Certo, nella musica il dinamismo è quasi implicito, ma in Savinio tale aspetto lo si ritroverà anche nella letteratura, nella pittura e nel teatro nonché nel pensiero. Infatti egli sosteneva che nell’ironia e in particolar modo nella freddura si ha un aspetto dinamico del pensiero o delle idee. «La freddura – scrive Savinio – , ossia il gioco del bisenso, è la naturale nemica dell’idea fissa, questo fondamento della dittatura» .


4. Il classico tra i surrealisti

Il Surrealismo deve molto a Giorgio de Chirico si potrebbe dire addirittura che la metafisica offre ai surrealisti la chiave per effettuare la transizione tra la composizione fortuita e casuale ereditata da Dada e il problema di stabilre un linguaggio visivo adeguato alla rappresentazione dei fatti dell’inconscio. De Chirico si è sempre rifiutato di riconoscere un qualche interesse per la psicoanalisi. Nonostante questo il tema della nevrosi e dell’inconscio non sono lontani dalla poetica dechirichiana e questo tratto forse contraddistingue nella maniera più profonda la sua pittura rispetto a quella degli altri metafisici come Carrà o De Pisis che non riescono a comunicare nessuna inquietudine visionaria, ma solo il richiamo della tradizione accademica e pittorica. Tornando all’ambiente familiare di De Chirico scopriamo che la sua famiglia è costellata di casi di stranezze ai limiti della psicopatologia. La zia Aglae usava alzarsi in piena notte dopodiché si vestiva in abito da ballo e guanti lunghi, accendeva i lampadari e si metteva a leggere le lettere di M.me de Sévigné (da cui forse ha tratto il cognome Savinio). Lo zio Alberto (da lui invece potrebbe aver preso il nome), uomo educato alle arti e alla letteratura, smise di uscire dalla sua casa di Livorno dall’età di trent’anni perché aveva paura dell’abisso, la qual cosa lo portava a camminare per la casa priva di finestre spingendo avanti a sé una sedia. Un’altra zia di nome Apollonia dondolava la testa sul bordo del sofà fino a divenire calva. Lo stesso Giorgio de Chirico lascia intuire di aver a lungo sofferto di una forma strisciante di depressione con conseguenti somatizzazioni che gli hanno procurato ripetuti fastidi. De Chirico non è certamente un folle ma riesce a riportare un clima che al di là della normalità borghese, è come se stesse all’inizio di una strada che condotta agli esiti estremi può incontrarsi con quella del delirio, dell’allucinazione e della follia. Tutto ciò non è sfuggito certamente ai surrealisti che attraverso le loro opere hanno sviluppato i temi dechirichiani proprio in senso allucinatorio, onirico e delirante, tralasciando invece quella mezza misura in cui c’era spazio ancora per la memoria dell’antico. Solo in pochi espenonenti del movimento surrealista è reperibile un’attenzione per gli aspetti del classico e forse solo in caso questa classicità è legata a De Chirico.


Paul Delvaux

Uno di quegli artisti per i quali la visione di De Chirico è stata rivelatrice e ha mutato tutto il modo di dipingere successivo è Delvaux. Egli ha più di un punto in comune con De Chirico. Non è nato in Grecia, ma coltiva fin da ragazzo una passione per la letteratura greca antica. Inoltre è un appassionato di stazioni ferroviarie. Qui però le stazioni non sono un ricordo paterno ma una passione hobbistica. L’aspetto dilettantesco è in Delavaux molto più forte che in De Chirico. Egli non compie studi regolari. Si iscrive ai corsi di architettura all’Accademia di Belle Arti ma li abbandona quasi subito per le difficoltà incontrate con la matematica. A differenza di De Chirico invece va sottolineato che scopre la pittura piuttosto tardi. Se poi in De Chirico si assiste a una sorta di dilettantismo culturale, ma è comunque indubitabile che l’artista per quanto poco dotato abbia una confidenza con la pittura, nel caso di Delvaux assistiamo ad un modo di dipingere quasi naif di cui l’artista Belga non riuscirà a liberarsi mai. Delvaux comincia la sua carriera pittorica dipingendo appunto stazioni e convogli ferroviari cercando faticosamente di ottenere effetti di un certo realismo descrittivo. Il suo modello quindi è costituito dalla tradizione realista, non c’è nulla di avanguardistico in quello che fa, al massimo si può scorgere la lezione del postimpressionismo. La visione dei quadri di De Chirico gli offre invece la soluzione linguistica per poter portare sulla tela direttamente la propria immaginazione. A questo punto la pittura di Delvaux subisce una brusca svolta in cui riemergono temi dell’adolescenza che concorrono a formare un mondo immaginario abbastanza omogeneo. Infatti nella sua pittura alcuni temi ritornano con una puntualità quasi ossessiva, ragion per cui riesce ad essere inquietante non solo per le singole visioni che in alcuni casi rasentano il kitsch quanto per la ripetitività e l’insistenza con cui ripropone uno scenario che alla fin fine è sempre lo stesso. Tale scenario è caratterizzato innanzitutto dalla visione onnipresente di donne con il seno scoperto o completamente nude in atteggiamenti statici o rituali, quasi da pittura egizia, ad esso si aggiunge per un lungo periodo la presenza di un ragazzo adolescente, anch’egli nudo, che probabilmente rappresenta l’artista stesso. Tra gli altri personaggi troviamo a più riprese due signori sul modello dell’accoppiata Philias Fog e aiutante o Sherlock Holmes e Watson o più probabilmente il geologo Lindenbrock e l’astronomo Rosette di Viaggio al centro della Terra di Verne, che l’autore si trascina dalle sue letture giovanili. Più inquietante è invece la presenza di scheletri e di una donna distesa, una Venere, che vanno fatti risalire ad alcune particolari visite che lui fece. Una in particolare è quella fatta al museo-baraccone del Dott. Spitzener in cui ha la possibilità di ammirare una Venere meccanica in cera che simulava la respirazione grazie a un congegno interno. Per quanto riguarda il rapporto con il classico c’è da dire che anch’esso emerge continuamente nei titoli e nelle ambientazioni. Infatti i quadri di Delvaux hanno generalmente tre tipi di ambientazioni: o sono in vecchie case borghesi con la carta da parati e le decorazioni al soffitto, o sono all’aperto o in mezzo a edifici classici, ruderi essenziali e stilizzati, giardini, qualche volta abitazioni comuni e stazioni ferroviarie. L’eredità classica però non è solo un fondale attraverso il linguaggio dell’architettura classica, l’aspirante architetto Delvaux, riesce a costruire dei climi irreali e freddi. Ecco, forse la nota che più contraddistingue l’impiego della tradizione classica rispetto a quello che ne fa De Chirico sta proprio nella freddezza. Qui la classicità è mediata dal razionalismo cartesiano, è una classicità ereditata dal neoclassicismo che si pone in maniera tanto ordinata quanto assurda. Si ha così una specie di teatrino di fondo per un gioco di dama in cui tutti i componenti sono pedine senza personalità e in cui il classico si pone come l’impersonale razionalità della scacchiera.


Salvador Dalì

Con Salvador Dalì usciamo dall’immediata filiazione dechirichiana. Non è che manchino in Dalì le citazioni da De Chirico; troviamo in alcune sue pitture accenni ai manichini, senza contare il fatto che l’adozione di questi grandi piani bruciati dal sole del meriggio sono di matrice dechirichiana. Dalì però non scopre De Chirico, quando arriva nel gruppo surrealista l’influenza dechirichiana ha già fatto storia e ha già influenzato autori come Tanguy o Ernst, a cui Dalì si rifà più direttamente. Dalì è un eccellente copiatore, ma non è mai pedissequo, è troppo amante del virtuosismo per esserlo. In effetti egli dispone della più eccellente abilità pittorica tra tutti i pittori analizzati fin ora e questo ha un particolare rilievo in quanto Dalì come De Chirico si riproponeva di risollevare le sorti della pittura proprio penetrando all’interno di uno di quei movimenti d’avanguardia che l’avevano incrinate. Dalì è anche un artista eccentrico ed egocentrico smanioso di farsi notare, egli riprende gli stilemi in uso di maggior successo e li esaspera in senso virtuosistico in modo da renderli appariscenti. E’ anche per questo quindi che il suo modo di dipingere ha tanto in comune con le tecniche dell’illustrazione pubblicitaria, la quale tende sempre all’effetto e all’iperrealismo. Il rapporto di Dalì con il classico si pone su due binari molto differenti tra loro a seconda che si intenda il classico come classicismo accademico e il classico come grecità. Dalì aspirava a diventare un classico e amava i classici della pittura spagnola, in particolar modo Velasquez. Il problema sta però nel fatto che quelli che gli erano stati trasmessi come dei classici negli studi artistici non sono imparentati con la rinascita della cultura ellenistico-romana. I classici dell’arte spagnola inseguono un realismo che ha inficiato tutta la tradizione spagnola sia nel senso della concretezza, come nel cubismo picassiano, sia nel senso del virtuosismo, stabilendo una tradizione che va dal barocco fino appunto a Dalì. Dalì quindi è un avanguardista di maniera e la sua formazione accademica lo porta a una sperimentazione che può essere letta anche come un tentativo di riportare ogni trasgressione all’interno della “bella” pittura. Per quanto riguarda il classico come tradizione greco-romana troviamo un solo caso importante in cui egli vi fa esplicitamente ricorso ed è ancora una volta a proposito della citatissima Venere di Milo. Egli realizza una scultura con un calco della Venere in cui vengono posti tanti cassetti. Qui ci possiamo accorgere come la tradizione antica sia del tutto distante da Dalì. In quest’opera, intitolata La Venere a cassetti, Dalì è interessato solo a prendere la statua classica come modello astratto della donna occidentale. La Venere è quindi poco più che un ideogramma, un simbolo convenzionale completamente svuotato di un senso proprio. Essa è solo l’oggetto noto alla massa, il souvenir da turista, che viene usato per fare un discorso sulla psicoanalisi, così come Freud l’ha fatto con Edipo, senza che però ci sia qui nessun particolare riferimento libresco. Il discorso che vuole fare Dalì servendosi dei cassetti riguarda una sorta di commento alla teoria freudiana nel suo complesso. «L’unica differenza tra la Grecia immortale e l’epoca contemporanea – scrive lo stesso Dalì – è costituita da Sigmund Freud, il quale ha scoperto che il corpo umano, puramente neoplatonico all’epoca dei Greci, è oggi pieno di cassetti segreti che soltanto lo psicanalista è in grado di aprire» .


Man Ray

Abbiamo visto come l’antichità classica da riferimento culturale nicciano sia a divenuta quasi una semplice icona della tradizione occidentale. Su questo fronte è particolarmente significativa l’opera di Man Ray. Quest’ultimo nasce a Filadelfia negli USA ed è probabilmente il primo artista americano ad entrare tra i protagonisti di un movimento d’avanguardia. La sua formazione è di tipo artistico ma è segnata un impronta tecnicistica piuttosto che letteraria, anche se il suo insegnante, proveniente dal MIT, amava le divagazioni filosofiche. Questo ci dice già che l’ambiente in cui si forma Ray, segnato dal pragmatismo, dall’utilitarismo e dallo scientismo è del tutto estraneo a ogni forma di classico sia nel senso di classicismo che in quello di grecità. Man Ray ha la fortuna di conoscere Marcel Duchamp durante il suo soggiorno newyorkese e di diventarne amico. Così venne invitato a Parigi dove cominciò a frequentare gli ambienti dadaisti occupandosi di fotografia e, limitatamente, di cinema. Tra le sue foto si avverte un inaspettato interesse per alcune sculture classiche. Per questo americano a Parigi la scultura classica è dunque nulla più che un oggetto che non richiama nessuna memoria interiore, nessun significato profondo. Essa è un segno o addirittura più semplicemente un oggetto. Il primo caso riguarda ancora una volta la sfruttatissima Venere di Milo. E’ ovvio ormai che essa viene usata quasi alla stregua di un’icona pop e quindi non viene usata nonostante sia inflazionata ma proprio per la sua notorietà. Si tratta non di un’opera da esposizione ma di un intervento nella rivista «391» in cui pubblica una foto della Venere accanto a quella di una divinità africana con la didascalia “Black and White”. Come si può facilmente vedere siamo alla traduzione in immagini del famoso battibecco tra Vlaminck e Derain. Ancora una volta si mette la cosiddetta “arte negra” contro l’arte “bianca” dei greci. Ma cosa c’è ormai di greco nella Venere di Ray? Essa è solo il simbolo della scultura occidentale e quindi per esteso della cultura classicista tradizionale come in Dalì. Essa è più vagamente il passato a cui si oppone l’azzeramento selvaggio delle avanguardie. Altri classici verranno usati da Man Ray in composizioni fotografiche o in assemblages. In questi la statua greca perde anche quel valore iconico di antichità per diventare un semplice oggetto plastico, un ready-made. Il busto di Venere legato ha l’effetto di sottolineare proprio il contrasto tra il materiale ordinario costituito dalla corda che contrasta felicemente con la levigata bianchezza dell’oggetto-statua ridotto a semplice frammento. Con Man-Ray si spezza definitivamente ogni residuo legame con l’eredità classica e si comincia a sottolineare la distanza della società industriale e tecnologica da un qualcosa che è ridotto a merce culturale, oggetto da conservare, frammento di una lingua morta di cui si ode solo il suono senza afferrarne le parole.