La sensibilità classica nelle neoavanguardie

Parte seconda: La sensibilità classica nelle neoavanguardie

1) Le neoavanguardie

1.1) Jannis Kounellis

Jannis Kounellis è nato in Grecia, come i fratelli De Chirico, ma a differenza di questi ultimi Kounellis è un greco a tutti gli effetti. Nato al Pireo nel 1936 è condizionato nella sua giovinezza da due filoni culturali: il primo è quello dell’arte novecentesca greca, la quale si porta sempre dietro strascichi di classicismo accademico; il secondo influsso è invece quello dell’informale che assorbe in particolar modo nel momento in cui arriva in Italia nel 1956. La seconda metà degli anni Cinquanta sono in Italia degli anni molto densi di ricerche artistiche. E’ questo il periodo in cui nasce Forma 1, in cui si ritorna a guardare alle esperienze delle avanguardie storiche, siano esse quelle di tipo strutturalista della tradizione del formalismo della Bauhaus o siano esse invece quelle di estrazione dadaista.

Per quanto riguarda le influenze di tipo informale Kounellis è interessato soprattutto agli aspetti materici ad esempio dell’arte di un Burri ma è anche interessato alle sperimentazioni di un Fontana che tendono ad andare oltre la superficie del quadro. Di questo periodo è significativa ad esempio un’opera fatta di semplici bottiglie vecchie adagiate su una tavola di compensato. In quest’opera, che è datata 1957 e che di poco posteriore al suo arrivo a Roma si può già intravedere quella linea di continuità che congiunge l’informale materico all’oggettualismo new-dada. Questa ripresa di elementi diretti dalla realtà diventa per l’artista greco un’acquisizione fondamentale su cui poi svilupperà tutto il suo lavoro poetico. La ripresa dell’elemento reale, non la meta di una ricerca, com’era stato per la generazione precedente alla sua. Il reale riportato non è un “non-importa-che” come nel ready made, ma diviene un vocabolario per la costruzione di una poetica che ha anche intensi tratti lirici. All’inizio la sua attenzione si rivolge ai segni: frecce, numeri, lettere. Sembra che l’artista sia interessato dal cosiddetto paesaggio urbano; un paesaggio che si contraddistingue da quello agreste per la sua natura semiotica. Ciò a cui si rifà Kounellis è la giungla delle scritte, dei numeri, dei segnali. Possiamo dire che questo è un momento in cui si cerca un’uscita dall’informale in vista di un tipo di comunicazione nuova, che ha vari esiti, tra cui la pop-art. Ma in Kounellis questo cammino che è portato avanti fino alla metà degli anni 60 comincia a deviare dalla scritta di tipo pubblicitario in favore di rinnovato interresse per la materia o per gli elementi naturali. Anzi sarebbe meglio dire che l’attenzione di Kounellis si va focalizzando sul contrasto tra elemento naturale ed elemento industriale. Un fiore in ferro con al centro una fiamma all’acetilene è uno dei più eclatanti segni di questa virata. Il passo successivo sarà quello di portare direttamente il vivente in un contesto artistico: lo farà in un primo momento con un pappagallo e in un secondo momento con l’eclatante esposizione dei cavalli alla galleria L’Attico di Roma nel 1969. Nel frattempo Kounellis approfondisce la sua analisi delle possibilità di composizione poetica a partire da materiali presi dalla realtà. Le sue opere hanno per oggetto il carbone, la lana, il cotone, i sacchi (come quelli di Burri), le piante grasse ecc.. L’uso di questi elementi evoca un non-so-che di primario e di fondamentale che si riconnette alle sperimentazioni analoghe che in quel periodo venivano condotte da artisti come Robert Morris in mostre come Primary Structures o in tendenze come l’anti-form. Già qui si può intravedere una poetica dell’originario che però ancora rimane espressa in modo molto semplice e minimale attraverso la presentazione di tali materiali su basi si metallo di tipo industriale o, come nel caso delle “lane”, attaccate a strutture di legno o a teli di iuta. C’è quindi un forte richiamo al mondo del lavoro sia esso quello rurale che quello industriale come se si volesse insistere su quella che nelle scienze storiche è stata chiamata la “cultura materiale”. A partire dal 1969 Kounellis comincia anche a creare delle composizioni di oggetti e materiali: prende la rete di un letto e vi pone sopra del cotone e poi su di un’altra rete, a fianco, vi pone delle piastrelle con la metaldeide accesa. L’effetto è quello dello scheletro di un letto su cui brillano tante fiammelle. Qui ormai il semplice materismo è superato, né ci troviamo alle prese con una composizione surrealista o dada. L’incontro dei materiali non è casuale o semplicemente illogico, non è assurdo, né ha la stravaganza del sogno. Non ci sono valori inconsci come nel surrealismo, ma al contrario c’è una precisa volontà compositiva, gli oggetti vengono congiunti come le parole di un epigramma e vanno a creare un preciso effetto di contrasto evocativo, in una poesia della materia. Lo stesso discorso si fa ancor più chiaro con l’impiego di “materiale” umano come nell’opera del 1970 in cui una modella giace distesa su un parallelepipedo di ghisa, coperta da un manto da cui sporge solo un piede a cui è collegata un cannello di acetilene acceso. Da qui in poi Kounellis ha ormai trovato il suo linguaggio che si distanzia enormemente dal modo di sentir dei suoi colleghi americani e che ha trovato una formula europea di trattare il rapporto tra natura e società industriale con una tonalità che ci si può azzardare a definire cupamente tardo-romantica. In effetti se le opere degli americani sono inespressive queste invece sono volutamente espressive anche attraverso la presentazione dei semplici materiali. Se gli americani sono astorici l’opere di Kounellis è invece storicamente porosa e profonda in quanto ogni sua installazione è impregnata di vissuto e di memoria. Una volta trovato questo nuovo modo di comporre, Kounellis, lo usa liberamente. Sempre del 1969 è un’opera in cui l’artista prende una lastra di ghisa su cui scrive col gesso “Libertà o Morte, W Marat, W Robespierre” e vi appone una candela accesa poggiata su una mensola. Il messaggio è riferito letteralmente alla rivoluzione francese, ma è chiaro che è ispirato ai moti di piazza del ’68. In questo caso si possono fare due considerazioni: primo, l’artista mostra di aver superato qualsiasi rigidità formalistica di matrice informale. Il metallo, come il gesso o la candela, non hanno un valore formale né semplicemente materico. Essi sono materiali compostivi che vengono usati in un modo simbolico estremamente libero, ma allo stesso tempo estremamente sensato. Secondo, Kounellis mostra di parlare un vocabolario artistico pieno di storia, di riferimenti colti. Tali riferimenti alla storia d’Europa e alla cultura in generale, li ritroviamo in altre opere in cui l’artista si rivolge all’ambito musicale, con citazioni da Mozart , Verdi , Bach o Stravinskij. E’ in queste opere che incontriamo l’ingresso della tematica del classico. In un’opera del 1972 vengono presentate due cabine: in una c’è un flautista che esegue un brano di Mozart e nell’altra c’è l’artista stesso che si copre il volto con una maschera in gesso ricavata dal calco di una statua classica. Qui occorre fare un’osservazione, infatti, il classico, come pure la musica, si presenta nella pura forma della citazione. L’oggetto classico, il frammento dell’antichità non viene emulato, ripreso, ma campionato attraverso il calco. Abbiamo così quello stesso tipo di calco che Man Ray aveva ridotto a ready-made. Il calco in gesso è quindi ridotto ad oggetto, ma, come avviene per altri oggetti o materiali, Kounellis trova il modo per restituirgli una scomponibilità poetica. In questo modo la strada intrapresa con la composizione dei materiali torna a ricongiungersi con le influenze della cultura greca moderna (che a sua volta risente dell’influenza dell’antico). Il tutto non porta a una riedizione del classicismo né a uno snaturamento del classico (come avviene nel ready made dadaista), ma a una nuova sintesi poetica in cui il contrasto tra gli oggetti – siano essi quelli dell’industria, della natura o della memoria culturale – è capace di far scaturire un nuovo lirismo. Una delle operazioni più riuscite, in questo contesto, è un’installazione performance del 1973, dedicata ad Apollo (in quanto la maschera è la copia dell’Apollo Belvedere). In essa si vede un tavolo su cui stanno i frammenti (in calco) di una statua greca. Ai lati del tavolo stanno un flautista, che, come nell’opera precedente, suona un brano di Mozart e un corvo impagliato appoggiato sul busto della statua. Al centro invece c’è ancora una volta l’artista con il volto coperto dalla stessa maschera di gesso dell’opera precedente. In quest’opera c’è come una tensione misterica, con il corvo simbolo tanatologico e il corpo smembrato che aspira a una ricomposizione. Ragion per cui tutta la composizione sembra alludere a un desiderio di rinascita, anche se questa rinascita non è la reincarnazione cristiana ma, come dice Kounellis stesso, un “rivivere gli scopi”. Questo rivivere o vivificare gli scopi e gli ideali è ciò che si lega alla musica di Mozart, che Kounellis considera uno spirito illuminista. Ciò nonostante nell’opera aleggia un’atmosfera enigmatica e oracolare che solo un greco avrebbe potuto trasmettere. Kounellis inoltre tiene a precisare che il suo modo di trattare il classico non vuole mai essere aulico e a tal proposito cita una lettera di Goya a David in cui il primo rimprovera al secondo di aver voluto dare una rappresentazione “classica” di Maria Antonietta che va al patibolo. Dice Kounellis: « Lì si capisce che Goya è Liberale e David aulico. A me interessa affermare la libertà della tragedia, perché il dramma rappresenta una condizione borghese, mentre la tragedia ha ragioni divine e motivazioni storiche immense» . David aveva disegnato Maria Antonietta con il viso ovale, gli occhi a mandorla. Egli aveva cioè applicato per l’ennesima volta i canoni neoclassici. Il suo accademismo aveva trionfato sulla rappresentazione della realtà e gli ha impedito di cogliere quel fugace senso di paura che traspariva dal suo volto, il quale è stato invece colto da Goya. Quindi, il classico di Kounellis non può essere confuso in alcun modo con il classicismo accademico con il quale lui è in completa rottura. Egli non concede margini di dubbio o di connivenza come accade per De Chirico prima e Mariani poi. Egli denuncia ogni effetto drammatico (nel senso retorico del termine) come borghese. Il “drammatico” che lui denuncia è dunque quello manierato, a cui egli contrappone il “tragico” che ha una profondità sacrale. E’ proprio nella ricerca di questa poeticità tragica, che scaturisce dalle contrapposizioni e dai recessi dell’animo umano, che va letta l’introduzione di elementi tratti dall’antichità classica nell’opera di Kounellis. L’artista greco insiste sulle maschere e sui volti anche in altre occasioni senza l’utilizzo della musica. Il volto è infatti un elemento fondamentale nella sua poetica. Egli afferma che la maschera greca ha la stessa funzione che ha nel teatro giapponese. La maschera non è qualcosa che si cambia a seconda della situazione, la maschera stabilisce il ruolo e l’identità. Essa è plasmata su quel ruolo e quindi in un certo senso essa contiene il destino stesso di quel personaggio. Spesso egli propone dei volti in gesso (calchi di statue antiche) esposti con delle striature di fuliggine, fatte probabilmente con il fumo delle candele. In un’altra situazione l’artista afferma che il fumo è cristiano. E in effetti tali opere sembrano riproporre la problematica romantica del contrasto tra età cristiana ed età antica. L’età antica aveva un rapporto con la natura che il cristianesimo ha distrutto, esso perciò si frappone come un’ombra tra noi e l’antichità classica. Il fumo che segna queste sculture sembra proprio questo frapporsi del cristianesimo a un pieno recupero dell’antichità classica.

1.2) Giulio Paolini

Giulio Paolini è nato a Genova ma si è presto trasferito a Torino. Anche lui, come Kounellis, ha iniziato la sua attività artistica nella seconda metà degli anni Cinquanta, influenzato dall’informale. La sua poetica però è decisamente diversa da quella del suo collega greco. Egli non ama particolarmente l’informale materico, ma all’opposto propende per le esperienze più intellettuali e mentalistiche. Infatti si rivolge dapprima a una pittura quasi monocroma fino ai primi anni Sessanta, quando comincia a introdurre l’impiego della fotografia. Giunge così a una prima svolta intorno al ’65 quando realizza una serie di opere sulla dialettica tra spazio percepito e soggetto percettore in relazione allo spazio della rappresentazione. Il suo lavoro acquista così fin da subito una portata speculativa che va nella stessa direzione delle ricerche concettuali che venivano svolte in quello stesso periodo dall’altra parte dell’oceano. In un suo libro, intitolato Idem, Paolini traccia una specie di anamnesi artistica, descrivendo lo sviluppo storico delle sue opere come tappe di un coerente sviluppo teorico. Questa è almeno l’impressione che si ricava dalle pagine dell’introduzione, scritte da un critico di eccezione, Italo Calvino, il quale ci racconta le varie fasi come se fosse una storia chiara e scorrevole, senza incertezze, né passi indietro. La storia incomincia dalla tela su cui si tracciano le semplici diagonali per individuarne il centro. Quelle diagonali sono già l’anticipazione della gabbia prospettica e perciò non sono qualcosa di ininfluente e neutrale. Esse costituiscono un elemento condizionante e quindi vanno esposte di per sé, vanno sottoposte allo sguardo critico del pubblico o come direbbe Calvino vanno messe garbatamente tra parentesi, “perché non si credano d’essere chissà cosa neppure loro”. Il passo successivo è stato quello di collocare una tela bianca, in modo da avvertirne il distacco dal telaio. Anche qui si critica un altro presupposto della pittura che viene dato per scontato e che va a costituire la forma “ideologica” in cui noi pensiamo lo spazio della rappresentazione. “La tela – scrive sempre Calvino – fa parte del quadro, ma non è il quadro”. La tappa successiva di questo itinerario di critica agli assunti dello spazio del quadro è costituita dal colore. Paolini affronta questo tema con due opere. In una si vede un barattolo incellofanato e disposto al centro del telaio e nel secondo, affinché non si creda di voler parlare solo di un colore, ma del colore in senso generale, l’artista genovese prende un campionario di colori e lo espone sempre incellofanato nello spazio del telaio. A questo punto però è venuto il momento di mettere sotto accusa il telaio stesso. Così in un’opera del 1962 Paolini presenta il retro di un quadro intelaiato al cui interno c’è un altro telaio e un altro ancora come in un gioco di scatole cinesi. Ora, chiariti i presupposti fisici, l’artista può tornare a dedicarsi alla critica dei presupposti prospettico-gemetrici che inficiano la concezione dello spazio della rappresentazione. Questa volta l’oggetto della critica non è il centro prospettico del quadro, ma la quadrettatura della superficie, che trasforma uno spazio “aperto” in un spazio circoscrivibile, descrivibile razionalmente e misurabile. Ma chi è l’operatore di questa parcellizzazione, se non l’uomo? E’ all’uomo, al soggetto percepente, il soggetto agente nell’azione e accogliente nella percezione che si riferisce il centro prospettico del quadro. E’ in linea con i suoi occhi che viene stabilito il piano dell’orizzonte. Ecco allora che l’uomo, come soggetto, fa il suo ingresso in questa analisi dello spazio della rappresentazione eseguito dall’artista. Nel 1963 realizza un’opera intitolata Orizzontale in cui c’è un quadro all’interno del quale sta rappresentato un uomo assolutamente anonimo (l’illustrazione è tratta da un libro di anatomia) con una striscia orizzontale che attraversa lo spazio della tela posta all’altezza degli occhi, stante ad indicare appunto la linea d’orizzonte. Il portare l’attenzione sul soggetto giunge al culmine nella famosa opera Giovane che guarda Lorenzo Lotto nel quale attraverso il semplice cambiamento del titolo si rovescia il cannocchiale della percezione. Non è certo appropriato a questa sede il compito di scandagliare tutta la produzione “analitica” di Paolini, dato che a noi qui interessa il suo rapporto col classico, un rapporto questo che è pressoché assente nelle prime opere dell’artista, a meno che non si voglia definire classica la divisione della tela con le diagonali o con la quadrettatura. In un secondo momento i riferimenti al classico divengono comunque espliciti e inequivocabili. E’ quell’uso dell’antico che si deve spiegare, ma per spiegarlo abbiamo bisogno di capire qual è l’impronta fondamentale della sua ricerca. Solo così potremo distinguere il suo approccio da quello degli altri artisti a lui coevi. Bastano infatti queste poche premesse per capire che Paolini non fa un uso lirico del classico, o che il classico per lui non è l’oggetto logoro e abusato del turismo da museo che va ridotto a vago simbolo della concezione occidentale dell’arte. Paolini ritrova il classico nella storia dell’arte e quindi l’uso del classico è funzionale alla sua critica dei pregiudizi estetici dello spettatore (ma anche dell’artista) che si avvicina alla tela o comunque all’opera scultorea. Nell’esame analitico condotto dall’artista i primi a essere presi in considerazione sono i classicismi della modernità, solo più tardi, si arriva all’antichità. Dentro questo gioco di rimandi con il passato affiora un atteggiamento citazionista, freddo, formale in cui il reperto o meglio la copia del reperto hanno un senso legato esclusivamente al loro ruolo nel grande teatro della storia dell’arte. Questo aspetto, che è all’inizio rigorosamente funzionale, finisce col cedere terreno a qualche tentazione estetizzante. Tuttavia anche quando indugia nell’estetica la connotazione dominante è quella del classico visto come forma espressiva tipica della cultura moderna e del suo stesso riferirsi al passato. Dunque potremmo concludere dicendo che Paolini per certi versi è il più freddo e rigoroso dei citazionisti; che in questa citazione l’oggetto classico viene abbassato a ready-made, anche, che pur in tale situazione il classico per freddo che possa risultare (e forse anche per quella sensazione di ordine e di garbo che trasmette) continua ad essere un valore deduttivo nella comunità artistica contemporanea.

1.3) Michelangelo Pistoletto

Pistoletto è il terzo esponente dell’arte povera da noi qui trattato. Diversamente dagli altri due casi le sue origini non affondano nell’informale, ma nel realismo pittorico. Sono ad esempio del 60 tutta una serie di autoritratti su fondo monocromatico dai toni metallici (bronzo, oro, argento, alluminio) in cui si vede questa figura che si staglia solitaria nel quadro lasciando molto spazio vuoto intorno. Tutto ciò è molto distante dal tradizionale concetto di autoritratto basato sull’inquadratura rinascimentale in cui la centralità spetta al busto. Qui la figura sta dritta in piedi come un’erma, non è ben riconoscibile, in un caso è addirittura voltata e accanto non ha niente; rimane un grande vuoto nella tela in cui non c’è niente. Queste prime opere sono da considerarsi importanti, specie se messe in paragone con quelle successive dei pannelli specchianti a cui l’artista deve la sua fama internazionale. Lì infatti questo processo giunge a compimento e al posto della figura dell’autoritratto dipinta espressionisticamente ci sono immagini fotorealistiche di persone qualunque e al posto del fondo monocromo dai toni metallici vi pone una superficie di metallo completamente specchiante. L’arte di questo periodo pone l’accento sulla melanconia del quotidiano. Tali figure vengono poste a grandezza naturale dando l’impressione di trovarcele davvero dinanzi a noi bloccate nel loro attimo di vita ordinaria, mentre si allacciano una scarpa, mentre si siedono un momento per riposarsi. Tutto questo ha degli addentellati con le tematiche della pop a cui l’artista giunge per via individuale in tempi non sospetti che qui non ci interessa approfondire. Alla metà degli anni Sessanta la sua attenzione si sposta anche agli oggetti, nascono così la serie degli Oggetti in nero o degli Oggetti in meno. E’ in questo periodo che inizia a usare anche gli scampoli di stoffa e che produce la Venere degli stracci. Quest’ultima, realizzata nel ’67 può considerarsi a buon diritto la prima opera di Pistoletto in cui compare il tema del classico. Infatti l’opera è realizzata con un calco di un’intera statua greca dipinta di vernice dorata che sta a sorreggere un grande mucchio di stracci multicolori. In tale operazione assistiamo all’impiego ormai tipico di questa generazione del calco come ready-made, come riduzione della statua classica ad oggetto, oggetto che pur sempre richiama il passato e che viene messo a contrasto con un materiale che non gli è proprio, rappresentato nel nostro caso dagli stracci. Gemano Celant pur dedicando un paragrafo a questa opera non si interessa minimamente alla problematica del classico ma casomai a quella della copia che ai suoi occhi costituisce un equivalente della duplicazione offerta dalla riflessione degli specchi. Ciò che lo interessa sono invece la tattilità dei colori e quindi della luce. Tutto ciò lascerebbe pensare che la presenza del classico nell’opera di Pistoletto – perlomeno in questa fase – vada considerata poco più di una coincidenza fortuita. Pistoletto però ritorna su questo tema. Verso la fine degli anni Sessanta il suo interesse si concentra sul teatro di strada con la compagnia Zoo. Ebbene anche in questo contesto, in un’occasione Pistoletto ripresenta la Venere degli stracci con la differenza che la Venere non è più incarnata da una riproduzione in cemento di una statua classica ma da una ragazza in carne e ossa che posa nuda nella stessa postura della Venere. Viene allora da pensare che una delle possibili chiavi di lettura di quest’opera possa essere cercata nel rapporto tra l’emblema della nuda femminilità esemplificata al suo grado massimo da Venere con la stoffa e il vestito esemplificati al loro grado minimo dal cumulo di stracci. Abbiamo così che il richiamo al classico funge sempre a gioco di contrasti e opposizioni, come ad esempio in Kounellis, ma che lo fa in senso emblematico e non per la rivendicazione di una qualche eredità classica. Si tratterebbe cioè di classico senza classicismo. Un ulteriore esempio di utilizzo di materiale classico di questi anni è costituito dalla statua etrusca dell’oratore che viene posto dinanzi a uno specchio, nell’opera intitolata L’etrusco del 1976. In questo un richiamo all’elemento classico in quanto tale è però ineliminabile. La scultura classica è non è stata scelta per il tema dell’oratoria ma per la sua plasticità classica, per quel suo braccio che si protende fino a toccare lo specchio, perché rappresenta l’identità classica messa davanti allo specchio; questa volta veramente duplicata dall’immagine riflessa. Dobbiamo però notare che anche qui si tratta di un fatto occasionale che non è ancora sufficiente a delineare una poetica pistolettiana del classico. Un’altra operazione di questo genere, in cui il richiamo al classico, se lo è stato fatto consapevolmente, è ancor più evanescente è costituito da una rappresentazione teatrale, Anno Uno del 1981, in cui gli attori sorreggono con le loro teste delle strutture architettoniche. Il riferimento più immediato che viene in mente al vedere una cosa simile è quello alle cariatidi dell’acropoli di Atene. E’ difficile che l’artista stesso possa non essersene accorto. In special modo, se si pensa che lui è quello stesso artista che aveva sostituito alla Venere una donna, è facile pensare che possa aver sostituito le cariatidi con altrettante persone in carne ed ossa. Fin qui le opere legate al ciclo dell’arte povera. Nei primi anni Ottanta però l’arte di Pistoletto subisce una svolta. Inizia una nuova fase dedicata alla scultura in cui propone delle grandi opere in pietra basate sul tema della composizione di differenti frammenti scultorei. Per quel che attiene il discorso del classico le opere più significative sono quelle che si situano all’inizio di questo nuovo ciclo. In particolare la serie intitolata Il gigante, in realtà si tratta di un gruppo di opere che hanno più o meno lo stesso soggetto e lo stesso titolo, propone una figura appunto gigantesca composta dalla sovrapposizione di un torso maschile a un pezzo di statua femminile e così via. In questo tipo di operazioni la questione del classico assume un rilievo fondamentale anche perché non si presenta solo la classicità come citazione nella forma della copia in cemento o in gesso che sia, ma si presenta un richiamo al classico come imitazione dell’antico e del classicismo rinascimentale michelangiolesco nella forma di una ripresa stilistica. Ci troviamo perciò a tutti gli effetti con una forma tipica di classicismo. In tale impostazione dicevamo si avverte molto fortemente l’influsso della scultura michelangiolesca che emerge con una forma e con una monumentalità del tutto inaspettata. Si potrebbe dire che se in questo momento si assiste in Italia al ritorno alla pittura, in “Michelangelo” Pistoletto si assiste al ritorno alla scultura. Una scultura che si richiama al cuore stesso della tradizione scultorea evocando vagamente la scultura classica greca, quella ellenistica apprezzata già nel Rinascimento in opere come il Torso Belvedere, che costituirono un modello per Michelangelo, in tutto trattato con la tecnica del non finito michelangiolesco. Ci troviamo quindi con una tradizione classica che si avviluppa su se stessa. Tra l’altro nell’evocazione del Torso Belvedere, si ricorda come già il classicismo cinquecentesco avesse già scoperto l’estetica del frammento in cui la potenza emanata dai muscoli in tensione non si perde per effetto dell’incompletezza della statua, ma al contrario aumenta nel sublime gioco dell’immaginazione. In questo senso Michelangelo Pistoletto esalta queste intuizioni già presenti in nuce all’interno dell’estetica rinascimentale-manierista portandole a un esito compositivo che allora non sarebbe ammissibile ma che in qualche modo ricorda i giochi di corpi scolpiti da autori come il Giambologna. Tuttavia rimane da chiedersi se si è ancora nel territorio dell’avanguardia o si è già passati in quello, non tanto del citazionismo, ma casomai della Transavanguardia. Infatti la successiva opera scultorea di Pistoletto, pur non avendo mai aderito alla transavangurdia presenta quel mix di neo-simbolismo e neo-espressionismo che sono la chiave di quest’ultima e in cui le istanze classiciste vanno rapidamente scomparendo.

1.4) Claudio Parmigiani

L’arte di Parmiggiani, pur movendosi fuori dal gruppo dell’arte povera ha una storia simile a quella dei poveristi. Parmiggiani comincia la sua esperienza artistica a cavallo tra la fine degli anni Cinquanta e i primi anni Sessanta con l’informale. Dopodiché egli viene a contatto con la nozione di ready-made anche se, in un primo momento, lo fa in un maniera che può sembrare in qualche modo debitrice del new-dada americano. Fin dalle prime opere però ci accorgiamo di una fondamentale differenza tra il suo impiego degli oggetti e quello che ne fa il new dada. Egli infatti ne fa un uso tendente al poetico, all’associazione colta di elementi che hanno di per se un carattere simbolico. Tutto ciò è molto lontano dalla semplice composizione di oggetti banali. Lo spessore simbolico, fin troppo smaccato, degli oggetti che compone, lo porta subito verso un tipo di arte caratterizzata da una compiaciuta erudizione. Questo lo avvicina a una pratica citazionista che però non implica il ritorno alla pittura. Nei disegni di Parmiggiani si può seguire bene questo cammino. Si vede infatti che l’artista parte da schizzi astratti che pian piano divengono forme umane che stanno sospese nello spazio. In queste assistiamo a una forte tematizzazione del rapporto luce ombra che diverrà un elemento simbolico esplicito in alcuni disegni successivi in cui possiamo osservare uomini che lottano con la propria ombra o tentano di fustigarla. Tralasciando il fatto che tali temi si prestano ad una lettura psicanalitica fin troppo scontata è da osservare il fatto che l’artista fin dagli anni Settanta indulge in disegni di carattere simbolista che preannunciano i dipinti degli anacronisti, anche se lui si rifiuterà sempre di tornare alla pittura figurativa. Dicevamo all’inizio che l’opera di Parmiggiani è affine per certi versi a quella dell’arte povera, infatti, nel 1968 crea opere come lo Zoo geometrico che si pongono sul versante del reimpiego del naturale o del rapporto tra naturale e artificiale su cui lavorano in quel momento anche artisti come Pascali, Penone e Gilardi. Questa tematica viene proseguita in opere come Malanngan del 1972, ma a partire dagli anni Settanta Parmiggiani produce opere che hanno per oggetto l’arte stessa, anche se ciò viene fatto a volte con dei wiz e non con un atteggiamento analitico. Queste opere hanno un sapore più concettualeggiante e tra esse possiamo ricordare Adagio musicale del 1970, in cui viene posta una lumaca su un pentagramma, Tela su tela dello stesso anno, in cui vengono sovrapposte due tele bianche, le Delocazioni, in cui si lasciano ammirare gli spazi bianchi lasciati dalle tele tolte. In un’altra operazione intitolata Versunkenheit del 1975 vengono esposte in una galleria solo tele bianche. Fin qui sembrerebbe esserci un intento analitico che però presto dilegua verso un atteggiamento citazionistico con operazioni come Sineddoche del 1976, in cui espone una riproduzione del quadro di Dosso Dossi, nel quale si vede Giove che dipinge su di una tela bianca alcune farfalle e, accanto a tale riproduzione, una tela con le farfalle dipinte con davanti uno sgabello e una tavolozza (ovvero la tela che sta dipingendo Giove). Se già l’opera di Dossi era un lavoro di arte sull’arte, in quanto vi veniva rappresentata l’attività del dipingere e quindi era una sorta di arte al quadrato, quella di Parmiggiani è un’arte al cubo, in quanto cita Dosso Dossi che cita la pittura. Un discorso simile si ha con De perspectiva del 1977, in cui mostra tre tavolini imbanditi, uno più piccolo dell’altro, come oggetti reali che vengono portati fuori dallo spazio illusorio della simulazione prospettica e in cui il restringimento delle dimensioni, che nella prospettiva ha un senso, si perde nell’istallazione reale. Da questi aspetti meta-artistici l’artista prende il via per una serie di riferimenti alla cultura del passato (in particolar modo rinascimentale) che viene ricordata in vari modi (costellazioni, musiche, labirinti). Tutto ciò prepara infine la svolta degli anni Ottanta in cui i protagonisti della maggior parte delle sue opere divengono i calchi in gesso dei volti classici. Questi vengono variamente trattati, colorandoli e accostandoli ad altri elementi, che possono essere tavolozze colorate, farfalle, rami, colori ecc. Parmiggiani arriva così alla creazione di un proprio esclusivo linguaggio compositivo poetico basato sulla citazione colta, che ha come riferimento costante la classicità. Detto questo, bisogna anche ricordare che questi elementi che emergono alla fine degli anni Settanta e negli anni Ottanta non sono completamente nuovi alla produzione dell’artista. Già nel 64 aveva realizzato un’opera intitolata La mano, in cui poneva alcuni frammenti di una mano in gesso sopra a stralci di uno spartito musicale e l’anno seguente aveva realizzato un’opera, La notte in cui usava il calco in gesso di viso femminile. Questi elementi sono quindi riemersi e hanno finito, nel caso del calco con il diventare dominanti anche se all’interno di un processo che li ha portati a una maturazione poetica. Il classico dunque si ritrova sparso già nelle radici dell’opera di Parmiggiani, prima con riferimenti sporadici e poi con il riferimento alla cultura rinascimentale. Ma qui ancora il classico appare come ripresa di un precedente classicismo o del Rinascimento stesso come momento classico e cioè massimo della cultura europea. Diversamente dal 1979 in poi il classico come antichità greco-romana viene chiamato in causa direttamente come mezzo per articolare un grande ventaglio di evocazioni erudite. Si pensi a un’opera come Phoebus in cui compare il calco di un busto femminile dipinto in parte di giallo, come a sottolineare la luce che la illumina, con una conchiglia marina posta vicino all’orecchio, come quando si vuole ascoltare il cosiddetto “rumore del mare”, il quale sta adagiato su di un piano sul quale sta anche una tavolozza, sulla quale giacciono oltre ai colori alcune farfalle.

1.5) Luca Maria Patella

L’opera di Luca Maria Patella comincia negli anni Sessanta con un interesse per mezzi come la fotografia che lo spingono a fare sperimentazioni molto estranee all’arte pittorica. In Patella non c’è una discendenza dal quadro e dalla pittura. Il suo approccio è legato ad altri media, alla fotografia, all’istallazione, alla performance. Patella assume come implicita la lezione duchampiana e si rapporta a una sperimentazione in cui oggetti e situazioni sono trattati come opere d’arte al di là di una loro presunta esteticità. Le sue, più che opere nel senso tradizionale, sono operazioni. Qui gli aspetti della documentazione e dell’esperienza (anche semplicemente intellettuale) hanno la meglio sulla fisicità della scultura e della pittura. Patella comincia la sua attività con una serie di sperimentazioni su base fotografica come il Mare firmato (1965) in cui si vede una foto del mare con impressa la sua firma attraverso una tecnica puramente fotografica. L’anno seguente sempre con la tecnica fotografica realizza Si fa così, un’opera dai toni quasi pop. Nel 1967 realizza un filmato e una serie di fotografie intitolate Terra Animata in cui si assiste a una serie di misurazioni del terreno di tipo quasi concettuale. L’attenzione di Patella però, a differenza dei concettualisti americani, è più legato ai comportamenti che non al problema analitico della misurazione. Non a caso sempre in quello stesso periodo realizza una serie di opere che hanno come comune sottotitolo la dicitura Analisi del comportamento. La sperimentazione continua nel 1969-1970 con i lavori sulle immagini semisferiche e con l’uso di diffusori acustici. Il che significa che Patella va interessandosi della cosiddetta arte multimediale. Tale ricerca sfocerà nella famosa Foresta parlante (il cui titolo esatto è Un boschetto di Alberi Parlanti e profumati, e di Cespugli Musicali, sotto un Cielo) esposta alla Walzer Art Gallery di Liverpool. A questo punto le installazioni multimediali o “parlanti” si moltiplicano durante gli anni Settanta assieme alle performance. Allo stesso modo prosegue anche la sperimentazione fotografica con le fotografie stenopeiche. Nel corso degli anni Ottanta invece il percorso di Patella si fa più attento alle problematiche storiche assimilando alcuni aspetti della cultura della citazione senza però avere alcuna simpatia per il ritorno alla pittura. Si accentuano piuttosto gli interessi per gli aspetti psicanalitici, per le simbologie, i giochi di parole, i motti di spirito. Tracce di questa sua attenzione è testimoniata dai lavori sul letto di Duchamp o dall’interesse per Diderot. E’ in questo momento che alcuni elementi legati al classico emergono nell’arte, che si fa sempre più erudita, di Luca Maria Patella. L’attenzione per il classico nella sua opera va intesa relativamente ai due sensi del termine e cioè quello legato all’antichità e quello legato al classicismo. Si può dire che Patella si imbatte più spesso nel classicismo di quanto non accada con l’antico che, tuttavia, non ha un’importanza minore. Partendo dal classicismo non si può fare a meno di notare le citazioni tempietti classicistici neo-rinascimentali nella sua opera. Molto spesso le sue installazioni associano a elementi attuali altri dal tono quasi antiquario (si pensi ad esempio alle strutture in legno concave in cui sono rappresentate le volte stellate). Un’opera in cui questo dialogo col classicismo acquista un valore rilevante si ha nel caso del lavoro dedicato alla caduta di Fetente, un’opera giovanile di Gian Battista Piranesi. A prima vista più che un’opera sembra uno studio storico-artistico. Vi si analizzano con scrupolo tutti gli elementi iconografici. Il disegno piranesiano infatti è denso di simbolismi che si sovrappongono modo tale da non renderli neanche chiaramente leggibili. Patella isola e spiega i diversi elementi iconografici e tenta anche di fornire una possibile ricostruzione del quadro d’insieme dell’opera. La spiegazione che però ci fornisce Patella non è una spiegazione storica o iconologia ma è una spiegazione di tipo psicanalitico. Qui, nelle alchimie linguistiche tipiche dell’interpretazione psicologica e in assenza di possibili riscontri non sappiamo mai dove finisce l’indagine “scientifica” dell’opera e dove comincia il contributo creativo del Patella artista. A Patella non interessa chiarire questa ambiguità. Un caso invece di riferimento diretto al classico inteso come antico lo abbiamo in una performance che l’artista ha tenuto tra le rovine della Villa di Orazio a Licenza. Il titolo dell’opera è Exegi monumentum aëre perennius. Esso è ripreso dalla frase latina “exegi monumentum aere perennius” che vuol dire “ho costruito un monumento più duraturo del bronzo”, ma che ora, grazie all’aggiunta della dieresi sulla “e” di “aere” viene a mutare il suo significato così: “ho costruito un monumento più duraturo dell’aria”. La frase subisce così un repentino scombinamento grazie a un motto di spirito da cui scaturisce una possibilità creativa di reinventare la situazione. Nella performance una portatrice d’acqua in abiti antichi si aggira tra i ruderi, mentre una coppia di attori declama una serie frasi latine opportunamente interpolate da Patella. Come si può vedere da questi due soli esempi il rapporto di Patella con il classico è diverso da tutti gli altri. Per lui il classico non si traduce nella copia in gesso da usare come ready-made, non è nemmeno un riferimento per sculture o altro genere di oggetti. Esso è più che altro un repertorio culturale in cui entrare con acuta ironia sia per interpretare che scombinare le carte. Patella quindi non è neanche propriamente un citazionista ma è casomai una strana forma di umanista che si aggira divertito nei labirinti del sapere.

2) Dal post-concettuale verso la pittura e il cinema

2.1) Antonio Trotta

Antonio Trotta ha uno speciale rapporto con il classico dovuto innanzi tutto al materiale che usa, il marmo. La sua caratteristica saliente a un primo colpo d’occhio sta nel virtuosismo, nella padronanza del mezzo. Questa confidenza con il marmo però ha anche dei risvolti poetici. La più illustre storia della scultura in marmo è stata quella tracciata dall’antichità classica e dai vari classicismi e neoclassicismi che si sono succeduti nel tempo. Quello di Trotta comunque non è un semplice classicismo, né il suo lavoro può essere incluso nei tratti del cosiddetto anacronismo. La vicenda di Trotta tra l’altro è del tutto particolare. Egli non ha vissuto sempre in Italia, avendo abitato per un lunghissimo periodo in Argentina, il che ha fatto in modo che egli vedesse le vicende delle neoavanguardie e della loro crisi con un certo distacco. Ciò gli ha in parte nuociuto in quanto lo ha condannato a una posizione periferica nella scena artistica italiana presso la quale il suo lavoro ha avuto una qualche eco solo nei primi anni Ottanta. Nonostante il virtuosismo e la formazione accademica Trotta non recupera l’iconografia ottocentesca o le forme tipiche della scultura figurativa. Nel caso dell’arte povera o anche di artisti che svolgono un corso di ricerca parallelo, come ad es. Parmiggiani, noi abbiamo assistito ad un impiego della citazione che si attua tramite l’utilizzo di calchi in gesso o cemento di statue antiche. Il classico viene cioè ripreso nella forma della statua anche se tale statua non viene classicisticamente imitata come modello, ma semplicemente citata nella forma della copia. Ciò spesso avviene poi con la citazione della sola testa classica o del busto. Tutto ciò presuppone una determinata concezione della classicità che la porta a coincidere con una visione umanistica del mondo, in cui l’uomo o la figura umana espressa fondamentalmente attraverso il suo volto, costituisce il protagonista assoluto e ineliminabile della scena. Si propone così piuttosto ingenuamente un’equivalenza tra classicità e soggetto umano presentato nella forma tipica della statua. Il lavoro di Trotta da questo punto di vista è di grande interesse perché esorbita da questa visione scontata e limitativa del classico, così come esce dalla cultura della citazione basata sulla riproduzione “meccanica” della statua attraverso il calco. Trotta rivendica il suo ruolo di scultore. Lui non fa dei ready-mades in cui prende degli oggetti, preferisce imprimere con la scultura una forma alle cose. Da questo punto di vista il suo atteggiamento può apparire più tradizionale di quello dei suoi colleghi dell’arte povera. Ma egli poi spiazza questa immagine di tradizionalità, in quanto scalza completamente il soggetto umano dai suoi lavori. Egli non declassa la statua a oggetto, preferisce piuttosto scolpire oggetti invece che statue. Ecco allora che Trotta ci propone colonne, drappi, il tutto improntato al gusto e alle forme dell’antichità classica o del classicismo senza tuttavia proporre soggetti umani.

2.2) Vettor Pisani

In un catalogo, la nota biografica di Vettor Pisani comincia così: “Vettor Pisani, figlio di un ufficiale della Marina e di una ballerina dello strip-tease nasce a Napoli nel 1934. Ha vinto con la sua prima mostra nel 1970 il Premio Nazionale Italiano della Critica d’Arte”. Già questo incipit ci fa capire che ci troviamo a che fare con un artista provocatorio che conserva intatto lo spirito aggressivo e divertito delle avanguardie storiche. Pisani, infatti, insiste quasi scandalisticamente sul mestiere della madre anche nella dedica del catalogo: “R.C. Theatrum dedico a mia madre, ballerina dello strip-tease, e all’Arte che fa vedere l’indicibile” e ne fa una quasi metafora della conoscenza. Tutto ciò dà l’idea del temperamento irriverente e al tempo stesso dell’atteggiamento “colto” che contraddistingue la sua opera. Come ricorda con scarsa modestia lui stesso, egli debutta sulla scena dell’arte solo nel 1970, cioè quando aveva già 36 anni circa e raggiunge la notorietà solo intorno al 1980 con un’opera che ha proprio un tema classico: Edipo e la sfinge. Prima di addentrarci nel contesto di quest’opera sarà bene ricordare anche un altro aspetto dello stile di Pisani. Un’altra opera famosa di questo autore è La lepre non ama Joseph Beuys, in cui si vede una lepre viva attaccata alle due mezze croci (o “T”) che costituiscono una sorta di logotipo dell’artista tedesco. In questo caso è chiaro l’intento ironico che è anche dissacrante, se si pensa che Beuys è a quel tempo considerato un artista cult. Il rapporto con Beuys merita attenzione perché esso mostra un’ambivalenza che occorre tener presente nel giudicare l’apporto di Pisani al discorso del classico. Infatti, accanto a opere come questa che ironizzano palesemente su Beuys, ne troviamo numerose altre in cui si può vedere come Pisani sia stato pesantemente influenzato dalla poetica dell’artista tedesco, non solo in senso burlesco, ma soprattutto serio e così quando ci rivolgiamo a opere come l’Edipo e la Sfinge dobbiamo sempre tener conto di questo mix di ironia e serietà. L’opera infatti si presenta in maniera ambigua e, in un certo senso, semiseria. In un disegno successivo egli rappresenta la Sfinge che tiene appeso con la coda e le mani il corpo senza vita di Edipo. Si tratta di una visione simbolista piuttosto oscura, qui invece, pur permanendo una certa tonalità simbolista si ha che fare con una situazione più sbarazzina. Troviamo infatti un fotomontaggio in cui un Edipo un po’ recalcitrante sta cheek-to-cheek con una affettuosa Sfinge dal corpo di ghepardo. Sullo sfondo si vede la Piramide Cestia e il cimitero degli Artisti. Pisani si chiede: “Se Roma fosse un animale: che animale sarebbe?” e la risposta è “…L’azzurra sfinge, la Vergine alata regina di tutte le donne e principessa di tutti gli animali”. Il luogo immortalato invece è “un funebre teatrino per Edipo e la Sfinge”. Edipo probabilmente è l’artista stesso preda della mortifera Sfinge, che incarna non solo la città eterna, ma anche la dark lady, la pericolosità della donna. Il tutto però è trattato senza tragicità e con un ombra di divertimento. Tale leggerezza e ambiguità costituisce forse proprio il tratto originale che distingue la concezione del classico dell’irregolare Pisani da quella di ogni altro.

2.3) Anne e Patrick Poirer

Anne e Patrick Poirer sono una coppia di artisti francesi che debutta sulla scena artistica alla fine degli anni ’60. Il loro interesse per l’antichità si manifesta quasi immediatamente. Nel 1967 realizzarono delle valigie le quali contenevano ognuna degli oggetti di uno sconosciuto. Insieme esse costituivano una serie di indizi di un’esistenza che stava allo spettatore ricostruire. Il loro lavoro quindi è fin dall’inizio basato su delle tracce. Un lavoro di poco successivo a questo è del 1970 e s’intitola cinque Hermes. Esso consiste in una istallazione con delle teche in cui reperti archelogici (ovverto le erme) e campioni botanici vengono messi in relazione tra loro. Il lavoro dei Poirier si manifesta da subito come un lavoro di carattere concettuale sulle modalità della catalogazione dei saperi, e ancora della raccolta delle tracce che però procede in senso colto, storico, rivolto all’investigazione del passato. Il loro modo di procedere è quindi molto diverso da quello dei concettuali veri e propri che svolgevano invece un’investigazione analitica del presente dell’arte. La loro attenzione non è di carattere analitico e non riguarda l’arte in quanto tale. Il loro è un lavoro sulle tracce del passato sui segni da cui procedono le investigazioni sia storiche che scientifiche. Di poco successivo a questo lavoro è un altro, intitolato Ostia Antica (1971-1972), in cui la coppia francese comincia a produrre quelle installazioni che diverranno tipiche del loro stile. In quest’opera viene mostrata una ricostruzione in miniatura di tutta l’area degli scavi di Ostia Antica, con grande precisione per i dettagli. Si passa così senza rottura di continuità dall’interesse per le tracce della memoria a quella per la topografia urbana che diverrà anche topografia mentale. L’opera è inoltre accompagnata da testi. Con una tecnica simile vengono prodotte altre opere come Isola Sacra fino alla più complessa Domus Aurea in cui l’opera è divisa per così dire in vari reparti (Le Réduit des Antiques, Le Jardin Noir, La Biblioteque Noir). Il tema della ricostruzione della città o delle rovine antiche permane anche nelle opere degli anni Ottanta. In questo periodo però vi si aggiunge un altro tema che diverrà emblematico della loro arte, quello del grande frammento di occhio ellenistico in connessione con una grande freccia metallica. Si potrebbe a questo punto rimproverare ai Poirier di essersi lasciati andare a un’estetica del sublime attraverso installazioni di carattere spettacolare. Bisogna però notare che il discorso dei due artisti non si è di fatto spostato su terreni più facili dal punto di vista della gradevolezza estetica o più convezionali. I Poirier costituisco uno dei rari casi di arte alla moda negli anni Ottanta che non ha concesso niente al ritorno all’ordine, ma che ha semplicemente e coerentemente continuato a percorrere una stessa strada attraverso un processo di accumulazione delle istanze poetiche. Il loro successo di quegli anni è dovuto solo alla convergenza della loro ricerca con gli interessi eruditi e archeologici che in quel momento di stavano diffondendo. In questo senso l’arte dei Poirier non ha mai smesso di essere a suo modo d’avanguardia. Un altro tema che si va aggiungendo tra la fine degli anni Ottanta e i primi anni Novanta è quello della gigantesca colonna in rovina. Qui l’idea del sublime è inevitabile. Si ha anche la sensazione che con l’avvento degli anni Novanta i Poirier cerchino un modo per semplificare il loro messaggio per ridurlo all’essenziale, quasi a un’icona a un simbolo. La stessa colonna smette di essere marmorea e scanalata per diventare liscia e metallica come nel caso dell’opera esposta al museo Pecci di Prato. Assieme a questi aspetti che possono essere definiti quasi di facciata, troviamo sempre all’inizio degli anni Novanta un recupero e un approfondimento del filo logico del discorso teorico, portato avanti da loro fin dalle origini. Emblematico a questo riguardo è un’opera intitolata Mnemosyne in cui ritroviamo le varie tappe del loro percorso riorganizzate entro una visione unitaria che pone tutto questo bagaglio di frammenti, rovine, tracce e città all’interno della mente. Lo spazio ellissoidale della scatola cranica diviene ora essa stessa città, ora anfiteatro, o organigramma della catalogazione. Ritornano così le teche, le tracce e i ruderi, tutti sotto il segno della memoria. Una memoria che è rivolta al passato ma che non abita il passato in quanto è essa stessa il principio della sua catalogazione e comprensione.

Il classico nei Poirier è forse l’esempio più interessante di dialogo con l’antichità di questa fine secolo all’interno delle arti visuali, in quanto esso non vi è ridotto a ready-made, non è semplice frammento esteticamente gradevole, non citazione reazionaria ma sforzo di reinventarsi un dialogo con il passato in modo vivo, senza cadere nelle trappole di facili neo-neo-classicismi.

2.4) Ian Hamilton Finlay

Ian Hamilton Finlay è un’artista che è sempre vissuto ai margini della scena artistica internazionale. Si pensi che in alcuni siti internet è considerato esclusivamente come poeta. Conduce una vita riservatissima lontano dal trambusto della città. Stando al di là di ogni corrente artistica, egli può essere considerato un anacronista, non nell’accezione stilistica del termine ma in quella letterale di persona che si tiene lontano, disgustato dallo stile di vita dei suoi tempi. Ian Hemilton Finlay incurante di ogni moda culturale vive la sua vita di artista e scrittore completamente immerso in una sua particolare ispirazione che regola non solo la sua arte ma tutta la sua esistenza. Il suo classicismo potrebbe avere elementi neoclassici, “greviard”, simbolisti o forse anche romantici. Tutto questo mix di suggestioni però non emerge da un’accozzaglia kitsch di riferimenti culturali appresi dai libri in modo retorico e ridondante, ma da una vita condotta con atteggiamento schivo e aristocratico di chi non è interessato al successo, ma solo alla coltivazione delle proprie idee. L’atteggiamento lirico e poetico emerge in ogni sua opera, ma sempre in maniera discreta, senza clamori o tragici contrasti. In questa vocazione lirica un ruolo fondamentale lo gioca una raffinata sensibilità classicistica. Il suo classicismo però non è fatto di citazioni o ready-made, non è fatto di statue né di virtuosismi marmorei. Le sue produzioni sono sempre garbate e spesso prediligono il rapporto con la natura all’insegna della grazia discreta e dell’armonia.

2.5) Carlo Maria Mariani

Carlo Maria Mariani pone un caso affine a quello posto dalla pittura metafisica; si tratta di stabilire cioè, non tanto se questi artisti mostrino un’attenzione al classico, che è ampiamente comprovata, quanto semmai quella per l’avanguardia. Il pittore romano si pone, come la metafisica, in un punto di confine tra avanguardia e ritorno all’ordine, con un percorso che partendo dalla prima sfuma gradatamente nel secondo. Non è un caso che Mariani sia diventato famoso come l’esponente di punta della corrente cosiddetta anacronista o ancora neo-neoclassica che venne lanciata nei primi anni Ottanta da Maurizio Calvesi. Gli anni Settanta si erano presentati come il trionfo del concettuale mondano e di altre neovanguardie, come la body art, la performance, l’arte politica, proponendosi in una forma non più “pura”, ma contaminata e intrecciata. Si trattava cioè di una situazione in cui le sperimentazioni andavano intrecciandosi e in cui il gioco degli –ismi era entrato ormai in crisi. Ebbene in questo contesto di tarda neoavanguardia concettualeggiante uno degli aspetti determinanti dell’opera diviene quello colto, metacomunicativo. Questa esasperazione dell’intellettualizzazione dell’arte apriva la strada a riflessioni erudite sull’arte stessa sul suo passato. E’ in questo clima che si formano Mariani, Ontani, Galliani o un artista-regista come Peter Greeneway. Così, se le neoavanguardie avevano fatto irruzione sulla scena artistica sotto il segno del nuovismo e del fare piazza pulita del passato, ora, grazie all’intellettualizzazione concettualeggiante si riscopre l’interesse per la riflessione teorica e anche l’erudizione e la storia. Questo sguardo erudito dell’artista sulla storia dell’arte nasce dunque con un intento critico, ma presto cede il passo al gusto per la citazione colta. Non a caso il ritorno al classcismo degli anni Ottanta è stato anche chiamato “citazionismo” e “pittura colta”. In questo passaggio dalla neoavanguardia al ritorno alla pittura, abbiamo deciso in questa sede di citare solo due nomi perché questi, sono gli artisti che hanno portato avanti con più decisione una pittura dai temi classici e classicisti, essendo partiti da basi tardoconcettuali e cioè d’avanguardia. Per quanto riguarda Mariani allora le opere più significative sotto questo aspetto sono da considerarsi quelle degli anni Settanta in cui l’artista lavora quasi esclusivamente con citazioni di carattere concettualeggiante riferite al periodo del neoclassicismo. Per fare un esempio in un’opera intitolata Mengs-Maron-Mariani (1974), l’artista propone una serie di autoritratti neoclassici intrecciati tra loro che hanno come punto d’arrivo l’autoritratto fotografico di Mariani stesso. L’opera quindi consiste di cinque riproduzioni: nella prima si vede l’autoritratto di Mengs, nella seconda quello di Von Maron, nella terza il ritratto di Mengs fatto da Von Maron, nella quarta il ritratto di Von Maron fatto da Mariani e quindi nella quinta, Mariani stesso che si riprende con l’autoscatto. Fin qui l’intervento della pittura e del virtuosismo rimane limitato e sottotono. Protagonista è ancora l’intreccio intellettuale del gioco vicendevole di ritratti e autoritratti. Si avverte comunque che Mariani vuole porsi in continuità con questi maestri ponendosi come punto d’arrivo.

2.6) Omar Galliani

Il caso di Omar Galliani è per molti versi simile a quello di Carlo Maria Mariani. Come Mariani, Galliani è un abile pittore che negli anni Settanta cresce artisticamente nell’alveo delle citazioni colte tardo-concettuali. Se per quanto riguarda la sua adesione al classicismo anacronista non ci sono dubbi, al proposito qualche perplessità sorge invece rispetto alla sua partecipazione alle neoavanguardie. Possiamo dire infatti che per quel che attiene alla problematica del classico nelle avanguardie, l’arte di Galliani entra solo di striscio. Galliani infatti appartiene anche generazionalmente, essendo nato nel 1954, più al periodo degli anni Ottanta che non a quello degli anni delle neoavanguardie. La sua prima personale è del 1977 e nel 1978 comincia a riscuotere i primi cenni di apprezzamento nel mondo dell’arte nel 1980 sarà poi incluso da Caroli nella mostra Magico Primario il che lo porterà a diventare uno degli esponenti di spicco del ritorno alla pittura. Le pitture di Galliani sono molto scenografiche, non c’è un recupero come in Mariani dello stile levigato del Neoclassicismo. La pittura di Galliani è improntata alle tecniche dell’illustrazione contemporanea. In esse c’è la ricerca dell’effetto, della visione impressionante e sublime. Non a caso egli vi inserisce fulmini o eruzioni vulcaniche viste da prospettive tipiche delle inquadrature cinematografiche. Il Galliani del ritorno alla pittura rilegge il classico con il punto di vista dell’effetto speciale hollywoodiano. Quello che interessa a noi è invece la fase di passaggio a questo stile in cui Galliani si mostra ancora legato alla citazione concettuale. In essa l’elemento citato pur essendo disegnato e non semplicemente fotografato è posto però come semplice richiamo di tipo colto, dentro un discorso dell’arte in merito al proprio passato, analogo a quello compiuto da Mariani. Un esempio di questo tipo di opere può essere reperito in opere come Principium individuationis del 1978 in cui viene riportata a matita una testa classica tratta dall’illustrazione di una statua antica.

2.7) Alain Resnais

Alain Resnais ci riporta, pur partendo dal clima degli anni Sessanta ed oltre, alla prima parte del nostro discorso; quella che, per intenderci, è legata alla metafisica e al surrealismo. Infatti egli fa parte della cultura surrealista che non troverà un adeguata espressione cinematografica e letteraria se non negli anni Sessanta. Resnais non fa mistero di essere molto legato al surrealismo e di essere rimasto fedele ad André Breton “che rifiutava di pensare che la vita immaginaria non facesse parte della vita reale”. Lui, non è un “grande vecchio” del cinema d’avanguardia come Bunuel o Clair, Resnais appartiene a una generazione successiva. Egli comincia la sua carriera come semplice attore, poi passa alla regia e stupisce tutti con un grande film di esordio, Hiroshima mon amour. Grazie a questo film viene inserito nel novero dei registi della Nouvelle Vague , ma in questo film già appaiono degli aspetti particolarissimi che lo contraddistinguono da qualsiasi altro regista del momento. Il carattere di differenziazione sta proprio nel fatto di far entrare il momento dell’immaginazione, del pensiero, della memoria, con i loro silenzi, le loro interruzioni, la loro frammentarietà all’interno dello scorrimento normale del film. La trama ne esce così corrosa, il tempo ne risulta dilatato e un diffuso senso di sospensione aleggia nella narrazione cinematografica. Dopo il successo di questo primo film, Resnais rincara la dose, forte anche del supporto per la sceneggiatura del romanziere Alain Robbe-Grillet, capofila del Nouveau Roman francese. Il risultato di questa collaborazione è L’année dernière à Marienbad, uno dei capolavori in assoluto del cinema sperimentale. Questo è anche il film che a noi interessa per le sue implicazioni rispetto all’elemento classico. Se il primo film proponeva una frammentazione della temporalità cinematografica ora si giunge a un’atmosfera di definitiva sospensione metafisica. Si ha quasi l’impressione che i personaggi girino a vuoto in un limbo in cui è assente la possibilità di qualsiasi decisiva svolta della trama. Tutte le situazioni tornano continuamente allo zero, l’unica cosa che permane è il quadro vuotamente formale della situazione generale, la struttura delle relazioni e la struttura della magnifica villa, con i giardini settecenteschi dalle siepi geometriche che contribuiscono a offrire una forte sensazione di derealizzazione. Come se tutto ciò non bastasse, tale condizione è rimarcata da una voce fuoricampo che continua a descrivere, senza posa ambienti e situazioni di questo teatrino paralizzato, in cui tutte le persone vivono in una condizione di perenne attesa, come se dovessero ingannare il tempo consapevoli di abitare un limbo. Un emblema di questo stato di cose è offerto dalla descrizione che il protagonista dà di un gruppo marmoreo del giardino in cui si vedono un uomo e una donna stranamente abbracciati. Di essa si può dire che l’uno scacci l’altro o che lo trattenga a seconda dei punti di vista. Non c’è alcuna certezza c’è solo un gioco chimerico di punti di vista, o come dice Robbe-Grillet “uno scambio di vedute”. D’altronde anche il soggetto del film è ambiguo. In esso il protagonista si rivolge a una donna, dicendole che si erano amati l’anno precedente, in quello stesso posto, ma lei assume il contegno di chi ha l’aria di non ricordare nulla. Lo spettatore non sa come stiano veramente le cose. Non ha una visione privilegiata rispetto i personaggi. Nessuno gli dice o gli fa capire chi è che mente e chi invece dice la verità. Quindi alla fine non rimane che un gioco di combinazioni. In particolare queste ultime sono di quattro tipi: 1) lui dice la verità e lei finge di non ricordare; 2) lui scambia lei per un’altra; 3) lei ha avuto un’avventura l’anno precedente, ma non con lui e quindi è perplessa perché non lo riconosce; 4) lui ha inventato tutto per cercare di avvicinare e sedurre lei. In tutto il film si dipana quest’incertezza questo gioco di distanze, di freddezze e di diffidenze, in cui non si ha la benché minima idea di dove stia la simulazione e la realtà. Tutto il tempo sembra sprofondare nella malinconia del ricordo, di un’elaborazione quasi ossessiva, del rimuginamento interiore. I personaggi sono piatti, senza spessore, sono come carte da gioco o pezzi degli scacchi. Oggi diremmo che sono personaggi da videogame. Il protagonista dice più volte nel corso del film: «Conosco un gioco a cui non perdo mai», sfida gli avversari e puntualmente vince come se ci fosse un trucco o un qualcosa di preordinato. Se si può fare un paragone con la pittura vengono alla mente alcuni quadri di Delvaux. La villa perfetta, i giardini rigidi e ordinati in cui si muovono personaggi altrettanto rigidi, come se fossero esseri mitici. Non a caso il protagonista dice: «Vi siete messi a dar loro dei nomi un po’ a caso, credo … Pirro e Andromaca; Elena e Agamennone… Allora io ho detto che potevamo essere voi ed io, … o chiunque altro». Il classico allora in questo film oltre ai riferimenti nel testo costituisce un’impressionante cornice di imponente freddezza e apparente ordine delle relazioni. Le simmetrie dello stile classicista corrispondono ai compunti cerimoniali che regolano i rapporti tra le persone e che allo stesso tempo li astraggono verso una pura idealità in temporale. Il classico ha un carattere Platonico, astrattivo e in fondo derealizzante. Esso sottrae tutta la vicenda al divenire del mondo apparente e lo porta nell’Iperuranio del mondo dei modelli, anche se questa in tal modo finisce con il perdere di senso storico e con il mostrare tutta la sua sottaciuta assurdità.

2.8) Peter Greeneway

Peter Greeneway è certamente più noto come regista cinematografico che come artista visuale. Di fatto però Greeneway ha compiuto i suoi studi all’accademia di belle arti e il suo interesse per l’arte visiva, pur passando in secondo piano rispetto alla produzione cinematografica, non è mai venuto meno, anzi l’influsso della cultura delle avanguardie ha contribuito in maniera determinante alla formazione di un personale e particolarissimo stile registica, che lo contraddistingue da tutta la scena cinematografica a lui contemporanea. Greeneway dopo gli studi d’arte svolge un lungo periodo di apprendistato (circa otto anni) nel campo del documentario. Tipici di questo periodo sono i documentari di carattere scientifico-divulgativo e quelli relativi alle nuotatrici di nuoto artistico. Entrambi i temi diverranno due elementi tipici della sua produzione cinematografica. Contemporaneamente Greeneway produce anche dei cortometraggi di carattere spiccatamente concettualeggiante. Anche in questo caso, dopo alcuni primi tentativi analitici, in cui la cinepresa si limita a registrare vari generi di variazioni, si passa ad un atteggiamento colto in cui si raccontano storie paradossali infarcite di elementi eruditi. Sul piano visuale invece Greeneway, produce una serie di mappe apparentemente di bird-watching in cui si assiste ad una collezione di ricognizioni che possono essere lette come variazioni su uno stesso tema che hanno quasi un carattere seriale e allo stesso tempo casuale, a cui però possono essere attribuiti dei significati più profondi. Questi significati stratificati diverranno una delle caratteristiche salienti della sua poetica. Sotto un velo di eventi apparentemente sconnessi, assurdi o paradossali, si nasconde come in un rebus un messaggio cifrato che a volte può essere allegorico e altre volte simbolico. Come nei rebus la scena vista a uno sguardo superficiale può sembrare astrusa e illogica. Elementi e personaggi vengono caratterizzati come se fossero i soggetti di un mazzo di carte. I personaggi non hanno alcuno spessore psicologico, sono maschere che hanno caratterizzazioni fisse. Ciò che conta è il gioco di queste caratterizzazioni che costituisce una trama di segni da interpretare. La surrealtà in lui ha un significato, la realtà no. Greeneway è una sorta di scriba che produce composizioni di geroglifici, laddove cercare la personalità di un geroglifico è un’operazione senza senso. Da questo punto di vista la poetica del regista-artista inglese si pone sullo stesso sentiero della pittura colta italiana. Si parte da un recupero della storia di tipo concettuale per approdare a un compiaciuto intrigo di riferimenti storici. C’è però una differenza fondamentale tra l’uno e gli altri: se l’anacronismo praticando il ritorno alla tradizione accademica della pittura oleografica, di fatto esce dall’avanguardia con un atto di tipo reazionario o comunque restaurativo dei valori artistici più retrivi, l’atteggiamento di Greeneway non si concreta mai in un ritorno verso qualche genere tradizionale o qualche pratica registica retriva e rassicurante. I suoi film sono sempre sperimentali, pongono sempre nuove sfide allo spettatore. Greenaway anche quando fa il film storico non lo fa recuperando il cliché del film storico a cui ci ha abituato l’industria culturale, ma propone un’operazione che è sempre straniante e, in certo modo, surreale. Il percorso di Greenaway quindi non si svolge nel senso del ritorno all’ordine, come avviene in Italia negli anni Ottanta, ma in quello del post-concettuale che continua ad essere presente tanto in Inghilterra come in America. Per quanto concerne invece le forme in cui il recupero del classico si m manifesta, all’interno di questa poetica, possiamo dire che esso si dà a partire dal film che lo ha reso famoso e cioè The Draughtsman’s Contract, che tradotto letteralmente sarebbe “Il contratto del disegnatore”, ma che stato distribuito nelle sale italiane con il più suggestivo titolo I misteri del giardino di Compton House. La storia ruota infatti attorno ai disegni (fatti da Greenaway stesso) di varie prospettive della villa Compton, che un disegnatore è chiamato a svolgere. Da questi emerge che nella villa c’è un abitante in più che durante il giorno passa inosservato come statua vivente. Il disegnatore quindi viene a conoscenza del segreto, senza sapere però che lui è la vittima predestinata di un intrigo, ordito dalla donna (e dalla figlia) con cui aveva stipulato un contratto. Il disegnatore dunque crede di assistere all’omicidio del padrone della villa (l’uomo statua), mentre egli invece sta venendo usato per un macchinoso piano, in cui deve fornire un erede ai signori della villa e poi morire. Nei disegni si avverte tutto l’interesse di Greeneway per il tema minimalista delle variazioni, che risponde al minimalismo musicale della colonna sonora creata da Micheal Nyman, in cui vengono presi frammenti di Purcell o altri autori barocchi e vengono rimontati modularmene. In tutto il film domina un atmosfera sospesa tra dialoghi di fredda cortesia e visioni del giardino barocco che a più critici hanno fatto ricordare Marienbad di Resnais. Il film è storico, ma è ambientato nella fine del Seicento; il classico dunque non è da riferirsi all’ambientazione storica, quanto al tema delle statue e al nodale riferimento mitologico che viene citato dalla protagonista verso la fine del film. Si tratta di un mito di morte riferito all’incombente morte del disegnatore. Si tratta del mito di Proserpina che, aggirandosi in un giardino, finisce preda di Plutone dio dell’Ade. Nel film successivo a questo il riferimento al classico è singolarmente messo in luce proprio dal titolo italiano che viene dato all’opera. Il film s’intitolava, in inglese, A Zed and Two Noughts, letteralmente Una zeta e due zeri, ma è stato reso in italiano con Lo Zoo di Venere. In questo caso il titolo inglese spiega un aspetto del film, mentre quello italiano ne spiega un altro. Riunendoli in un unico concetto possiamo dire che Venere è la Zeta e che è alle prese con due gemelli che sono i due Zeri. Venere è la Natura che è l’elemento dominante dello Zoo e agisce come nascita e decomposizione. In questo film comunque l’aspetto “classico” non va molto oltre questo riferimento mitico. Il film successivo a questo è invece quello più palesemente ricco di riferimenti al classico che Greenaway abbia mai prodotto. Il suo titolo è Il ventre dell’architetto (questa volta è la traduzione letterale del titolo inglese). L’opera tratta la storia di un architetto americano sposato a una donna italo-inglese che viene a Roma per curare una propria esposizione all’altare della patria. Stando a Roma scopre tre cose che si sviluppano contemporaneamente: 1) che nella sua pancia si sta sviluppando un tumore, 2) che nella pancia della moglie sta nascendo una nuova vita, 3) che tra la moglie e un antipatico architetto italiano sta nascendo una relazione che sta portando alla nascita di una nuova unione che sostituirà quella con lui. Questo triplice sviluppo è dunque caratterizzato dal simultaneo procedere verso la nascita, verso la morte e verso lo scambio (l’uomo giovane sostituisce il vecchio). Il tutto è unito dal tema della cupola, della concavità dell’arco. La cupola, prodotto tipico della cultura architettonica romana, diviene metafora del grembo materno, della pancia (= belly, in inglese, ha una singolare assonanza con “bell” = campana, quindi elemento concavo). La cupola diviene quindi una metafora di tutto il ciclo naturale di morte e rinascita, che è anche ciclo di positivo-negativo. Infatti qui l’elemento positivo è rappresentato dalla genuina ispirazione classicistica dell’architetto americano che ama le rovine romane e in particolar modo il Pantheon e la Villa Adriana, contrapposto all’elemento negativo, rappresentato dal giovane architetto italiano che invece ama il classicismo retorico fascista e vuole stornare i fondi dei restauri per consolidare le opere del Foro Italico. La distruzione personale del protagonista inoltre scorre parallela allo sfacelo delle condizioni di conservazione dei monumenti antichi.

Film questo più piano e intelligibile dei precedenti deve probabilmente la sua maggiore chiarezza a una volontà di impostazione classica e quindi sobria e semplice di tutto il film; una volontà questa a cui si adegua anche la musica che composta, non più da Nyman, ma da Wim Mertens che propone brani di un minimalismo chiaro, semplice e a volte monumentale.

Dopo questa esperienza di comprensibilità, Greeneway torna decisamente verso la scrittura cifrata con Drowing by Numbers (= “disegnando con i numeri”, titolo riferito probabilmente a un noto gioco di enigmistica in cui compare una figura man a mano che si uniscono i punti numerati) che è stato reso in Italia con Giochi nell’acqua, senza più tornare apertamente a temi classici.

Tolti quindi i film, rimane ancora un’opera, o si direbbe meglio, un intervento in cui Greenaway mostra il suo interesse per il classico. L’opera è La cosmologia di Piazza del Popolo a Roma. Ci troviamo ancora alle prese con l’aspetto classico della città eterna a cui va aggiunto in particolare quello neo-classico di piazza del Popolo completamente risistemata dal Valadier. Ritorniamo cosi al tema della struttura circolare, a cui si legano per analogia la circolarità dei movimenti dei pianeti e dei cieli e dove al centro di tutto sta, come se fosse l’asse di una merdiana l’antico obelisco egizio che domina la piazza.