Dal post-concettuale verso la pittura e il cinema

Antonio Trotta

full-4Antonio Trotta ha uno speciale rapporto con il classico dovuto innanzi tutto al materiale che usa, il marmo. La sua caratteristica saliente a un primo colpo d’occhio sta nel virtuosismo, nella padronanza del mezzo. Questa confidenza con il marmo però ha anche dei risvolti poetici. La più illustre storia della scultura in marmo è stata quella tracciata dall’antichità classica e dai vari classicismi e neoclassicismi che si sono succeduti nel tempo. Quello di Trotta comunque non è un semplice classicismo, né il suo lavoro può essere incluso nei tratti del cosiddetto anacronismo. La vicenda di Trotta tra l’altro è del tutto particolare. Egli non ha vissuto sempre in Italia, avendo abitato per un lunghissimo periodo in Argentina, il che ha fatto in modo che egli vedesse le vicende delle neoavanguardie e della loro crisi con un certo distacco. Ciò gli ha in parte nuociuto in quanto lo ha condannato a una posizione periferica nella scena artistica italiana presso la quale il suo lavoro ha avuto una qualche eco solo nei primi anni Ottanta. Nonostante il virtuosismo e la formazione accademica Trotta non recupera l’iconografia ottocentesca o le forme tipiche della scultura figurativa. Nel caso dell’arte povera o anche di artisti che svolgono un corso di ricerca parallelo, come ad es. Parmiggiani, noi abbiamo assistito ad un impiego della citazione che si attua tramite l’utilizzo di calchi in gesso o cemento di statue antiche. Il classico viene cioè ripreso nella forma della statua anche se tale statua non viene classicisticamente imitata come modello, ma semplicemente citata nella forma della copia. Ciò spesso avviene poi con la citazione della sola testa classica o del busto. Tutto ciò presuppone una determinata concezione della classicità che la porta a coincidere con una visione umanistica del mondo, in cui l’uomo o la figura umana espressa fondamentalmente attraverso il suo volto, costituisce il protagonista assoluto e ineliminabile della scena. Si propone così piuttosto ingenuamente un’equivalenza tra classicità e soggetto umano presentato nella forma tipica della statua. Il lavoro di Trotta da questo punto di vista è di grande interesse perché esorbita da questa visione scontata e limitativa del classico, così come esce dalla cultura della citazione basata sulla riproduzione “meccanica” della statua attraverso il calco. Trotta rivendica il suo ruolo di scultore. Lui non fa dei ready-mades in cui prende degli oggetti, preferisce imprimere con la scultura una forma alle cose. Da questo punto di vista il suo atteggiamento può apparire più tradizionale di quello dei suoi colleghi dell’arte povera. Ma egli poi spiazza questa immagine di tradizionalità, in quanto scalza completamente il soggetto umano dai suoi lavori. Egli non declassa la statua a oggetto, preferisce piuttosto scolpire oggetti invece che statue. Ecco allora che Trotta ci propone colonne, drappi, il tutto improntato al gusto e alle forme dell’antichità classica o del classicismo senza tuttavia proporre soggetti umani.

Vettor Pisani

In un catalogo, la nota biografica di Vettor Pisani comincia così: “Vettor Pisani, figlio di un ufficiale della Marina e di una ballerina dello strip-tease nasce a Napoli nel 1934. Ha vinto con la sua prima mostra nel 1970 il Premio Nazionale Italiano della Critica d’Arte”. Già questo incipit ci fa capire che ci troviamo a che fare con un artista provocatorio che conserva intatto lo spirito aggressivo e divertito delle avanguardie storiche. Pisani, infatti, insiste quasi scandalisticamente sul mestiere della madre anche nella dedica del catalogo: “R.C. Theatrum dedico a mia madre, ballerina dello strip-tease, e all’Arte che fa vedere l’indicibile” e ne fa una quasi metafora della conoscenza. Tutto ciò dà l’idea del temperamento irriverente e al tempo stesso dell’atteggiamento “colto” che contraddistingue la sua opera. Come ricorda con scarsa modestia lui stesso, egli debutta sulla scena dell’arte solo nel 1970, cioè quando aveva già 36 anni circa e raggiunge la notorietà solo intorno al 1980 con un’opera che ha proprio un tema classico: Edipo e la sfinge. Prima di addentrarci nel contesto di quest’opera sarà bene ricordare anche un altro aspetto dello stile di Pisani. Un’altra opera famosa di questo autore è La lepre non ama Joseph Beuys, in cui si vede una lepre viva attaccata alle due mezze croci (o “T”) che costituiscono una sorta di logotipo dell’artista tedesco. In questo caso è chiaro l’intento ironico che è anche dissacrante, se si pensa che Beuys è a quel tempo considerato un artista cult. Il rapporto con Beuys merita attenzione perché esso mostra un’ambivalenza che occorre tener presente nel giudicare l’apporto di Pisani al discorso del classico. Infatti, accanto a opere come questa che ironizzano palesemente su Beuys, ne troviamo numerose altre in cui si può vedere come Pisani sia stato pesantemente influenzato dalla poetica dell’artista tedesco, non solo in senso burlesco, ma soprattutto serio e così quando ci rivolgiamo a opere come l’Edipo e la Sfinge dobbiamo sempre tener conto di questo mix di ironia e serietà. L’opera infatti si presenta in maniera ambigua e, in un certo senso, semiseria. In un disegno successivo egli rappresenta la Sfinge che tiene appeso con la coda e le mani il corpo senza vita di Edipo. Si tratta di una visione simbolista piuttosto oscura, qui invece, pur permanendo una certa tonalità simbolista si ha che fare con una situazione più sbarazzina. Troviamo infatti un fotomontaggio in cui un Edipo un po’ recalcitrante sta cheek-to-cheek con una affettuosa Sfinge dal corpo di ghepardo. Sullo sfondo si vede la Piramide Cestia e il cimitero degli Artisti. Pisani si chiede: “Se Roma fosse un animale: che animale sarebbe?” e la risposta è “…L’azzurra sfinge, la Vergine alata regina di tutte le donne e principessa di tutti gli animali”. Il luogo immortalato invece è “un funebre teatrino per Edipo e la Sfinge”. Edipo probabilmente è l’artista stesso preda della mortifera Sfinge, che incarna non solo la città eterna, ma anche la dark lady, la pericolosità della donna. Il tutto però è trattato senza tragicità e con un ombra di divertimento. Tale leggerezza e ambiguità costituisce forse proprio il tratto originale che distingue la concezione del classico dell’irregolare Pisani da quella di ogni altro.

Anne e Patrick Poirer

Anne e Patrick Poirer sono una coppia di artisti francesi che debutta sulla scena artistica alla fine degli anni ’60. Il loro interesse per l’antichità si manifesta quasi immediatamente. Nel 1967 realizzarono delle valigie le quali contenevano ognuna degli oggetti di uno sconosciuto. Insieme esse costituivano una serie di indizi di un’esistenza che stava allo spettatore ricostruire. Il loro lavoro quindi è fin dall’inizio basato su delle tracce. Un lavoro di poco successivo a questo è del 1970 e s’intitola cinque Hermes. Esso consiste in una istallazione con delle teche in cui reperti archelogici (ovverto le erme) e campioni botanici vengono messi in relazione tra loro. Il lavoro dei Poirier si manifesta da subito come un lavoro di carattere concettuale sulle modalità della catalogazione dei saperi, e ancora della raccolta delle tracce che però procede in senso colto, storico, rivolto all’investigazione del passato. Il loro modo di procedere è quindi molto diverso da quello dei concettuali veri e propri che svolgevano invece un’investigazione analitica del presente dell’arte. La loro attenzione non è di carattere analitico e non riguarda l’arte in quanto tale. Il loro è un lavoro sulle tracce del passato sui segni da cui procedono le investigazioni sia storiche che scientifiche. Di poco successivo a questo lavoro è un altro, intitolato Ostia Antica (1971-1972), in cui la coppia francese comincia a produrre quelle installazioni che diverranno tipiche del loro stile. In quest’opera viene mostrata una ricostruzione in miniatura di tutta l’area degli scavi di Ostia Antica, con grande precisione per i dettagli. Si passa così senza rottura di continuità dall’interesse per le tracce della memoria a quella per la topografia urbana che diverrà anche topografia mentale. L’opera è inoltre accompagnata da testi. Con una tecnica simile vengono prodotte altre opere come Isola Sacra fino alla più complessa Domus Aurea in cui l’opera è divisa per così dire in vari reparti (Le Réduit des Antiques, Le Jardin Noir, La Biblioteque Noir). Il tema della ricostruzione della città o delle rovine antiche permane anche nelle opere degli anni Ottanta. In questo periodo però vi si aggiunge un altro tema che diverrà emblematico della loro arte, quello del grande frammento di occhio ellenistico in connessione con una grande freccia metallica. Si potrebbe a questo punto rimproverare ai Poirier di essersi lasciati andare a un’estetica del sublime attraverso installazioni di carattere spettacolare. Bisogna però notare che il discorso dei due artisti non si è di fatto spostato su terreni più facili dal punto di vista della gradevolezza estetica o più convezionali. I Poirier costituisco uno dei rari casi di arte alla moda negli anni Ottanta che non ha concesso niente al ritorno all’ordine, ma che ha semplicemente e coerentemente continuato a percorrere una stessa strada attraverso un processo di accumulazione delle istanze poetiche. Il loro successo di quegli anni è dovuto solo alla convergenza della loro ricerca con gli interessi eruditi e archeologici che in quel momento di stavano diffondendo. In questo senso l’arte dei Poirier non ha mai smesso di essere a suo modo d’avanguardia. Un altro tema che si va aggiungendo tra la fine degli anni Ottanta e i primi anni Novanta è quello della gigantesca colonna in rovina. Qui l’idea del sublime è inevitabile. Si ha anche la sensazione che con l’avvento degli anni Novanta i Poirier cerchino un modo per semplificare il loro messaggio per ridurlo all’essenziale, quasi a un’icona a un simbolo. La stessa colonna smette di essere marmorea e scanalata per diventare liscia e metallica come nel caso dell’opera esposta al museo Pecci di Prato. Assieme a questi aspetti che possono essere definiti quasi di facciata, troviamo sempre all’inizio degli anni Novanta un recupero e un approfondimento del filo logico del discorso teorico, portato avanti da loro fin dalle origini. Emblematico a questo riguardo è un’opera intitolata Mnemosyne in cui ritroviamo le varie tappe del loro percorso riorganizzate entro una visione unitaria che pone tutto questo bagaglio di frammenti, rovine, tracce e città all’interno della mente. Lo spazio ellissoidale della scatola cranica diviene ora essa stessa città, ora anfiteatro, o organigramma della catalogazione. Ritornano così le teche, le tracce e i ruderi, tutti sotto il segno della memoria. Una memoria che è rivolta al passato ma che non abita il passato in quanto è essa stessa il principio della sua catalogazione e comprensione.

Il classico nei Poirier è forse l’esempio più interessante di dialogo con l’antichità di questa fine secolo all’interno delle arti visuali, in quanto esso non vi è ridotto a ready-made, non è semplice frammento esteticamente gradevole, non citazione reazionaria ma sforzo di reinventarsi un dialogo con il passato in modo vivo, senza cadere nelle trappole di facili neo-neo-classicismi.

Ian Hamilton Finlay

Ian Hamilton Finlay è un’artista che è sempre vissuto ai margini della scena artistica internazionale. Si pensi che in alcuni siti internet è considerato esclusivamente come poeta. Conduce una vita riservatissima lontano dal trambusto della città. Stando al di là di ogni corrente artistica, egli può essere considerato un anacronista, non nell’accezione stilistica del termine ma in quella letterale di persona che si tiene lontano, disgustato dallo stile di vita dei suoi tempi. Ian Hemilton Finlay incurante di ogni moda culturale vive la sua vita di artista e scrittore completamente immerso in una sua particolare ispirazione che regola non solo la sua arte ma tutta la sua esistenza. Il suo classicismo potrebbe avere elementi neoclassici, “greviard”, simbolisti o forse anche romantici. Tutto questo mix di suggestioni però non emerge da un’accozzaglia kitsch di riferimenti culturali appresi dai libri in modo retorico e ridondante, ma da una vita condotta con atteggiamento schivo e aristocratico di chi non è interessato al successo, ma solo alla coltivazione delle proprie idee. L’atteggiamento lirico e poetico emerge in ogni sua opera, ma sempre in maniera discreta, senza clamori o tragici contrasti. In questa vocazione lirica un ruolo fondamentale lo gioca una raffinata sensibilità classicistica. Il suo classicismo però non è fatto di citazioni o ready-made, non è fatto di statue né di virtuosismi marmorei. Le sue produzioni sono sempre garbate e spesso prediligono il rapporto con la natura all’insegna della grazia discreta e dell’armonia.

Carlo Maria Mariani

Carlo Maria Mariani pone un caso affine a quello posto dalla pittura metafisica; si tratta di stabilire cioè, non tanto se questi artisti mostrino un’attenzione al classico, che è ampiamente comprovata, quanto semmai quella per l’avanguardia. Il pittore romano si pone, come la metafisica, in un punto di confine tra avanguardia e ritorno all’ordine, con un percorso che partendo dalla prima sfuma gradatamente nel secondo. Non è un caso che Mariani sia diventato famoso come l’esponente di punta della corrente cosiddetta anacronista o ancora neo-neoclassica che venne lanciata nei primi anni Ottanta da Maurizio Calvesi. Gli anni Settanta si erano presentati come il trionfo del concettuale mondano e di altre neovanguardie, come la body art, la performance, l’arte politica, proponendosi in una forma non più “pura”, ma contaminata e intrecciata. Si trattava cioè di una situazione in cui le sperimentazioni andavano intrecciandosi e in cui il gioco degli –ismi era entrato ormai in crisi. Ebbene in questo contesto di tarda neoavanguardia concettualeggiante uno degli aspetti determinanti dell’opera diviene quello colto, metacomunicativo. Questa esasperazione dell’intellettualizzazione dell’arte apriva la strada a riflessioni erudite sull’arte stessa sul suo passato. E’ in questo clima che si formano Mariani, Ontani, Galliani o un artista-regista come Peter Greeneway. Così, se le neoavanguardie avevano fatto irruzione sulla scena artistica sotto il segno del nuovismo e del fare piazza pulita del passato, ora, grazie all’intellettualizzazione concettualeggiante si riscopre l’interesse per la riflessione teorica e anche l’erudizione e la storia. Questo sguardo erudito dell’artista sulla storia dell’arte nasce dunque con un intento critico, ma presto cede il passo al gusto per la citazione colta. Non a caso il ritorno al classcismo degli anni Ottanta è stato anche chiamato “citazionismo” e “pittura colta”. In questo passaggio dalla neoavanguardia al ritorno alla pittura, abbiamo deciso in questa sede di citare solo due nomi perché questi, sono gli artisti che hanno portato avanti con più decisione una pittura dai temi classici e classicisti, essendo partiti da basi tardoconcettuali e cioè d’avanguardia. Per quanto riguarda Mariani allora le opere più significative sotto questo aspetto sono da considerarsi quelle degli anni Settanta in cui l’artista lavora quasi esclusivamente con citazioni di carattere concettualeggiante riferite al periodo del neoclassicismo. Per fare un esempio in un’opera intitolata Mengs-Maron-Mariani (1974), l’artista propone una serie di autoritratti neoclassici intrecciati tra loro che hanno come punto d’arrivo l’autoritratto fotografico di Mariani stesso. L’opera quindi consiste di cinque riproduzioni: nella prima si vede l’autoritratto di Mengs, nella seconda quello di Von Maron, nella terza il ritratto di Mengs fatto da Von Maron, nella quarta il ritratto di Von Maron fatto da Mariani e quindi nella quinta, Mariani stesso che si riprende con l’autoscatto. Fin qui l’intervento della pittura e del virtuosismo rimane limitato e sottotono. Protagonista è ancora l’intreccio intellettuale del gioco vicendevole di ritratti e autoritratti. Si avverte comunque che Mariani vuole porsi in continuità con questi maestri ponendosi come punto d’arrivo.

Omar Galliani

Il caso di Omar Galliani è per molti versi simile a quello di Carlo Maria Mariani. Come Mariani, Galliani è un abile pittore che negli anni Settanta cresce artisticamente nell’alveo delle citazioni colte tardo-concettuali. Se per quanto riguarda la sua adesione al classicismo anacronista non ci sono dubbi, al proposito qualche perplessità sorge invece rispetto alla sua partecipazione alle neoavanguardie. Possiamo dire infatti che per quel che attiene alla problematica del classico nelle avanguardie, l’arte di Galliani entra solo di striscio. Galliani infatti appartiene anche generazionalmente, essendo nato nel 1954, più al periodo degli anni Ottanta che non a quello degli anni delle neoavanguardie. La sua prima personale è del 1977 e nel 1978 comincia a riscuotere i primi cenni di apprezzamento nel mondo dell’arte nel 1980 sarà poi incluso da Caroli nella mostra Magico Primario il che lo porterà a diventare uno degli esponenti di spicco del ritorno alla pittura. Le pitture di Galliani sono molto scenografiche, non c’è un recupero come in Mariani dello stile levigato del Neoclassicismo. La pittura di Galliani è improntata alle tecniche dell’illustrazione contemporanea. In esse c’è la ricerca dell’effetto, della visione impressionante e sublime. Non a caso egli vi inserisce fulmini o eruzioni vulcaniche viste da prospettive tipiche delle inquadrature cinematografiche. Il Galliani del ritorno alla pittura rilegge il classico con il punto di vista dell’effetto speciale hollywoodiano. Quello che interessa a noi è invece la fase di passaggio a questo stile in cui Galliani si mostra ancora legato alla citazione concettuale. In essa l’elemento citato pur essendo disegnato e non semplicemente fotografato è posto però come semplice richiamo di tipo colto, dentro un discorso dell’arte in merito al proprio passato, analogo a quello compiuto da Mariani. Un esempio di questo tipo di opere può essere reperito in opere come Principium individuationis del 1978 in cui viene riportata a matita una testa classica tratta dall’illustrazione di una statua antica.

Alain Resnais

Alain Resnais ci riporta, pur partendo dal clima degli anni Sessanta ed oltre, alla prima parte del nostro discorso; quella che, per intenderci, è legata alla metafisica e al surrealismo. Infatti egli fa parte della cultura surrealista che non troverà un adeguata espressione cinematografica e letteraria se non negli anni Sessanta. Resnais non fa mistero di essere molto legato al surrealismo e di essere rimasto fedele ad André Breton “che rifiutava di pensare che la vita immaginaria non facesse parte della vita reale” . Lui, non è un “grande vecchio” del cinema d’avanguardia come Bunuel o Clair, Resnais appartiene a una generazione successiva. Egli comincia la sua carriera come semplice attore, poi passa alla regia e stupisce tutti con un grande film di esordio, Hiroshima mon amour. Grazie a questo film viene inserito nel novero dei registi della Nouvelle Vague , ma in questo film già appaiono degli aspetti particolarissimi che lo contraddistinguono da qualsiasi altro regista del momento. Il carattere di differenziazione sta proprio nel fatto di far entrare il momento dell’immaginazione, del pensiero, della memoria, con i loro silenzi, le loro interruzioni, la loro frammentarietà all’interno dello scorrimento normale del film. La trama ne esce così corrosa, il tempo ne risulta dilatato e un diffuso senso di sospensione aleggia nella narrazione cinematografica. Dopo il successo di questo primo film, Resnais rincara la dose, forte anche del supporto per la sceneggiatura del romanziere Alain Robbe-Grillet, capofila del Nouveau Roman francese. Il risultato di questa collaborazione è L’année dernière à Marienbad, uno dei capolavori in assoluto del cinema sperimentale. Questo è anche il film che a noi interessa per le sue implicazioni rispetto all’elemento classico. Se il primo film proponeva una frammentazione della temporalità cinematografica ora si giunge a un’atmosfera di definitiva sospensione metafisica. Si ha quasi l’impressione che i personaggi girino a vuoto in un limbo in cui è assente la possibilità di qualsiasi decisiva svolta della trama. Tutte le situazioni tornano continuamente allo zero, l’unica cosa che permane è il quadro vuotamente formale della situazione generale, la struttura delle relazioni e la struttura della magnifica villa, con i giardini settecenteschi dalle siepi geometriche che contribuiscono a offrire una forte sensazione di derealizzazione. Come se tutto ciò non bastasse, tale condizione è rimarcata da una voce fuoricampo che continua a descrivere, senza posa ambienti e situazioni di questo teatrino paralizzato, in cui tutte le persone vivono in una condizione di perenne attesa, come se dovessero ingannare il tempo consapevoli di abitare un limbo. Un emblema di questo stato di cose è offerto dalla descrizione che il protagonista dà di un gruppo marmoreo del giardino in cui si vedono un uomo e una donna stranamente abbracciati. Di essa si può dire che l’uno scacci l’altro o che lo trattenga a seconda dei punti di vista. Non c’è alcuna certezza c’è solo un gioco chimerico di punti di vista, o come dice Robbe-Grillet “uno scambio di vedute”. D’altronde anche il soggetto del film è ambiguo. In esso il protagonista si rivolge a una donna, dicendole che si erano amati l’anno precedente, in quello stesso posto, ma lei assume il contegno di chi ha l’aria di non ricordare nulla. Lo spettatore non sa come stiano veramente le cose. Non ha una visione privilegiata rispetto i personaggi. Nessuno gli dice o gli fa capire chi è che mente e chi invece dice la verità. Quindi alla fine non rimane che un gioco di combinazioni. In particolare queste ultime sono di quattro tipi: 1) lui dice la verità e lei finge di non ricordare; 2) lui scambia lei per un’altra; 3) lei ha avuto un’avventura l’anno precedente, ma non con lui e quindi è perplessa perché non lo riconosce; 4) lui ha inventato tutto per cercare di avvicinare e sedurre lei. In tutto il film si dipana quest’incertezza questo gioco di distanze, di freddezze e di diffidenze, in cui non si ha la benché minima idea di dove stia la simulazione e la realtà. Tutto il tempo sembra sprofondare nella malinconia del ricordo, di un’elaborazione quasi ossessiva, del rimuginamento interiore. I personaggi sono piatti, senza spessore, sono come carte da gioco o pezzi degli scacchi. Oggi diremmo che sono personaggi da videogame. Il protagonista dice più volte nel corso del film: «Conosco un gioco a cui non perdo mai», sfida gli avversari e puntualmente vince come se ci fosse un trucco o un qualcosa di preordinato. Se si può fare un paragone con la pittura vengono alla mente alcuni quadri di Delvaux. La villa perfetta, i giardini rigidi e ordinati in cui si muovono personaggi altrettanto rigidi, come se fossero esseri mitici. Non a caso il protagonista dice: «Vi siete messi a dar loro dei nomi un po’ a caso, credo … Pirro e Andromaca; Elena e Agamennone… Allora io ho detto che potevamo essere voi ed io, … o chiunque altro». Il classico allora in questo film oltre ai riferimenti nel testo costituisce un’impressionante cornice di imponente freddezza e apparente ordine delle relazioni. Le simmetrie dello stile classicista corrispondono ai compunti cerimoniali che regolano i rapporti tra le persone e che allo stesso tempo li astraggono verso una pura idealità in temporale. Il classico ha un carattere Platonico, astrattivo e in fondo derealizzante. Esso sottrae tutta la vicenda al divenire del mondo apparente e lo porta nell’Iperuranio del mondo dei modelli, anche se questa in tal modo finisce con il perdere di senso storico e con il mostrare tutta la sua sottaciuta assurdità.

Peter Greeneway

Peter Greeneway è certamente più noto come regista cinematografico che come artista visuale. Di fatto però Greeneway ha compiuto i suoi studi all’accademia di belle arti e il suo interesse per l’arte visiva, pur passando in secondo piano rispetto alla produzione cinematografica, non è mai venuto meno, anzi l’influsso della cultura delle avanguardie ha contribuito in maniera determinante alla formazione di un personale e particolarissimo stile registica, che lo contraddistingue da tutta la scena cinematografica a lui contemporanea. Greeneway dopo gli studi d’arte svolge un lungo periodo di apprendistato (circa otto anni) nel campo del documentario. Tipici di questo periodo sono i documentari di carattere scientifico-divulgativo e quelli relativi alle nuotatrici di nuoto artistico. Entrambi i temi diverranno due elementi tipici della sua produzione cinematografica. Contemporaneamente Greeneway produce anche dei cortometraggi di carattere spiccatamente concettualeggiante. Anche in questo caso, dopo alcuni primi tentativi analitici, in cui la cinepresa si limita a registrare vari generi di variazioni, si passa ad un atteggiamento colto in cui si raccontano storie paradossali infarcite di elementi eruditi. Sul piano visuale invece Greeneway, produce una serie di mappe apparentemente di bird-watching in cui si assiste ad una collezione di ricognizioni che possono essere lette come variazioni su uno stesso tema che hanno quasi un carattere seriale e allo stesso tempo casuale, a cui però possono essere attribuiti dei significati più profondi. Questi significati stratificati diverranno una delle caratteristiche salienti della sua poetica. Sotto un velo di eventi apparentemente sconnessi, assurdi o paradossali, si nasconde come in un rebus un messaggio cifrato che a volte può essere allegorico e altre volte simbolico. Come nei rebus la scena vista a uno sguardo superficiale può sembrare astrusa e illogica. Elementi e personaggi vengono caratterizzati come se fossero i soggetti di un mazzo di carte. I personaggi non hanno alcuno spessore psicologico, sono maschere che hanno caratterizzazioni fisse. Ciò che conta è il gioco di queste caratterizzazioni che costituisce una trama di segni da interpretare. La surrealtà in lui ha un significato, la realtà no. Greeneway è una sorta di scriba che produce composizioni di geroglifici, laddove cercare la personalità di un geroglifico è un’operazione senza senso. Da questo punto di vista la poetica del regista-artista inglese si pone sullo stesso sentiero della pittura colta italiana. Si parte da un recupero della storia di tipo concettuale per approdare a un compiaciuto intrigo di riferimenti storici. C’è però una differenza fondamentale tra l’uno e gli altri: se l’anacronismo praticando il ritorno alla tradizione accademica della pittura oleografica, di fatto esce dall’avanguardia con un atto di tipo reazionario o comunque restaurativo dei valori artistici più retrivi, l’atteggiamento di Greeneway non si concreta mai in un ritorno verso qualche genere tradizionale o qualche pratica registica retriva e rassicurante. I suoi film sono sempre sperimentali, pongono sempre nuove sfide allo spettatore. Greenaway anche quando fa il film storico non lo fa recuperando il cliché del film storico a cui ci ha abituato l’industria culturale, ma propone un’operazione che è sempre straniante e, in certo modo, surreale. Il percorso di Greenaway quindi non si svolge nel senso del ritorno all’ordine, come avviene in Italia negli anni Ottanta, ma in quello del post-concettuale che continua ad essere presente tanto in Inghilterra come in America. Per quanto concerne invece le forme in cui il recupero del classico si m manifesta, all’interno di questa poetica, possiamo dire che esso si dà a partire dal film che lo ha reso famoso e cioè The Draughtsman’s Contract, che tradotto letteralmente sarebbe “Il contratto del disegnatore”, ma che stato distribuito nelle sale italiane con il più suggestivo titolo I misteri del giardino di Compton House. La storia ruota infatti attorno ai disegni (fatti da Greenaway stesso) di varie prospettive della villa Compton, che un disegnatore è chiamato a svolgere. Da questi emerge che nella villa c’è un abitante in più che durante il giorno passa inosservato come statua vivente. Il disegnatore quindi viene a conoscenza del segreto, senza sapere però che lui è la vittima predestinata di un intrigo, ordito dalla donna (e dalla figlia) con cui aveva stipulato un contratto. Il disegnatore dunque crede di assistere all’omicidio del padrone della villa (l’uomo statua), mentre egli invece sta venendo usato per un macchinoso piano, in cui deve fornire un erede ai signori della villa e poi morire. Nei disegni si avverte tutto l’interesse di Greeneway per il tema minimalista delle variazioni, che risponde al minimalismo musicale della colonna sonora creata da Micheal Nyman, in cui vengono presi frammenti di Purcell o altri autori barocchi e vengono rimontati modularmene. In tutto il film domina un atmosfera sospesa tra dialoghi di fredda cortesia e visioni del giardino barocco che a più critici hanno fatto ricordare Marienbad di Resnais. Il film è storico, ma è ambientato nella fine del Seicento; il classico dunque non è da riferirsi all’ambientazione storica, quanto al tema delle statue e al nodale riferimento mitologico che viene citato dalla protagonista verso la fine del film. Si tratta di un mito di morte riferito all’incombente morte del disegnatore. Si tratta del mito di Proserpina che, aggirandosi in un giardino, finisce preda di Plutone dio dell’Ade. Nel film successivo a questo il riferimento al classico è singolarmente messo in luce proprio dal titolo italiano che viene dato all’opera. Il film s’intitolava, in inglese, A Zed and Two Noughts, letteralmente Una zeta e due zeri, ma è stato reso in italiano con Lo Zoo di Venere. In questo caso il titolo inglese spiega un aspetto del film, mentre quello italiano ne spiega un altro. Riunendoli in un unico concetto possiamo dire che Venere è la Zeta e che è alle prese con due gemelli che sono i due Zeri. Venere è la Natura che è l’elemento dominante dello Zoo e agisce come nascita e decomposizione. In questo film comunque l’aspetto “classico” non va molto oltre questo riferimento mitico. Il film successivo a questo è invece quello più palesemente ricco di riferimenti al classico che Greenaway abbia mai prodotto. Il suo titolo è Il ventre dell’architetto (questa volta è la traduzione letterale del titolo inglese). L’opera tratta la storia di un architetto americano sposato a una donna italo-inglese che viene a Roma per curare una propria esposizione all’altare della patria. Stando a Roma scopre tre cose che si sviluppano contemporaneamente: 1) che nella sua pancia si sta sviluppando un tumore, 2) che nella pancia della moglie sta nascendo una nuova vita, 3) che tra la moglie e un antipatico architetto italiano sta nascendo una relazione che sta portando alla nascita di una nuova unione che sostituirà quella con lui. Questo triplice sviluppo è dunque caratterizzato dal simultaneo procedere verso la nascita, verso la morte e verso lo scambio (l’uomo giovane sostituisce il vecchio). Il tutto è unito dal tema della cupola, della concavità dell’arco. La cupola, prodotto tipico della cultura architettonica romana, diviene metafora del grembo materno, della pancia (= belly, in inglese, ha una singolare assonanza con “bell” = campana, quindi elemento concavo). La cupola diviene quindi una metafora di tutto il ciclo naturale di morte e rinascita, che è anche ciclo di positivo-negativo. Infatti qui l’elemento positivo è rappresentato dalla genuina ispirazione classicistica dell’architetto americano che ama le rovine romane e in particolar modo il Pantheon e la Villa Adriana, contrapposto all’elemento negativo, rappresentato dal giovane architetto italiano che invece ama il classicismo retorico fascista e vuole stornare i fondi dei restauri per consolidare le opere del Foro Italico. La distruzione personale del protagonista inoltre scorre parallela allo sfacelo delle condizioni di conservazione dei monumenti antichi.

Film questo più piano e intelligibile dei precedenti deve probabilmente la sua maggiore chiarezza a una volontà di impostazione classica e quindi sobria e semplice di tutto il film; una volontà questa a cui si adegua anche la musica che composta, non più da Nyman, ma da Wim Mertens che propone brani di un minimalismo chiaro, semplice e a volte monumentale.

Dopo questa esperienza di comprensibilità, Greeneway torna decisamente verso la scrittura cifrata con Drowing by Numbers (= “disegnando con i numeri”, titolo riferito probabilmente a un noto gioco di enigmistica in cui compare una figura man a mano che si uniscono i punti numerati) che è stato reso in Italia con Giochi nell’acqua, senza più tornare apertamente a temi classici .

Tolti quindi i film, rimane ancora un’opera, o si direbbe meglio, un intervento in cui Greenaway mostra il suo interesse per il classico. L’opera è La cosmologia di Piazza del Popolo a Roma. Ci troviamo ancora alle prese con l’aspetto classico della città eterna a cui va aggiunto in particolare quello neo-classico di piazza del Popolo completamente risistemata dal Valadier. Ritorniamo cosi al tema della struttura circolare, a cui si legano per analogia la circolarità dei movimenti dei pianeti e dei cieli e dove al centro di tutto sta, come se fosse l’asse di una merdiana l’antico obelisco egizio che domina la piazza.