Alain Resnais
Alain Resnais ci riporta, pur partendo dal clima degli anni Sessanta ed oltre, alla prima parte del nostro discorso; quella che, per intenderci, è legata alla metafisica e al surrealismo. Infatti egli fa parte della cultura surrealista che non troverà un adeguata espressione cinematografica e letteraria se non negli anni Sessanta. Resnais non fa mistero di essere molto legato al surrealismo e di essere rimasto fedele ad André Breton “che rifiutava di pensare che la vita immaginaria non facesse parte della vita reale” . Lui, non è un “grande vecchio” del cinema d’avanguardia come Bunuel o Clair, Resnais appartiene a una generazione successiva. Egli comincia la sua carriera come semplice attore, poi passa alla regia e stupisce tutti con un grande film di esordio, Hiroshima mon amour. Grazie a questo film viene inserito nel novero dei registi della Nouvelle Vague , ma in questo film già appaiono degli aspetti particolarissimi che lo contraddistinguono da qualsiasi altro regista del momento. Il carattere di differenziazione sta proprio nel fatto di far entrare il momento dell’immaginazione, del pensiero, della memoria, con i loro silenzi, le loro interruzioni, la loro frammentarietà all’interno dello scorrimento normale del film. La trama ne esce così corrosa, il tempo ne risulta dilatato e un diffuso senso di sospensione aleggia nella narrazione cinematografica. Dopo il successo di questo primo film, Resnais rincara la dose, forte anche del supporto per la sceneggiatura del romanziere Alain Robbe-Grillet, capofila del Nouveau Roman francese. Il risultato di questa collaborazione è L’année dernière à Marienbad, uno dei capolavori in assoluto del cinema sperimentale. Questo è anche il film che a noi interessa per le sue implicazioni rispetto all’elemento classico. Se il primo film proponeva una frammentazione della temporalità cinematografica ora si giunge a un’atmosfera di definitiva sospensione metafisica. Si ha quasi l’impressione che i personaggi girino a vuoto in un limbo in cui è assente la possibilità di qualsiasi decisiva svolta della trama. Tutte le situazioni tornano continuamente allo zero, l’unica cosa che permane è il quadro vuotamente formale della situazione generale, la struttura delle relazioni e la struttura della magnifica villa, con i giardini settecenteschi dalle siepi geometriche che contribuiscono a offrire una forte sensazione di derealizzazione. Come se tutto ciò non bastasse, tale condizione è rimarcata da una voce fuoricampo che continua a descrivere, senza posa ambienti e situazioni di questo teatrino paralizzato, in cui tutte le persone vivono in una condizione di perenne attesa, come se dovessero ingannare il tempo consapevoli di abitare un limbo. Un emblema di questo stato di cose è offerto dalla descrizione che il protagonista dà di un gruppo marmoreo del giardino in cui si vedono un uomo e una donna stranamente abbracciati. Di essa si può dire che l’uno scacci l’altro o che lo trattenga a seconda dei punti di vista. Non c’è alcuna certezza c’è solo un gioco chimerico di punti di vista, o come dice Robbe-Grillet “uno scambio di vedute”. D’altronde anche il soggetto del film è ambiguo. In esso il protagonista si rivolge a una donna, dicendole che si erano amati l’anno precedente, in quello stesso posto, ma lei assume il contegno di chi ha l’aria di non ricordare nulla. Lo spettatore non sa come stiano veramente le cose. Non ha una visione privilegiata rispetto i personaggi. Nessuno gli dice o gli fa capire chi è che mente e chi invece dice la verità. Quindi alla fine non rimane che un gioco di combinazioni. In particolare queste ultime sono di quattro tipi: 1) lui dice la verità e lei finge di non ricordare; 2) lui scambia lei per un’altra; 3) lei ha avuto un’avventura l’anno precedente, ma non con lui e quindi è perplessa perché non lo riconosce; 4) lui ha inventato tutto per cercare di avvicinare e sedurre lei. In tutto il film si dipana quest’incertezza questo gioco di distanze, di freddezze e di diffidenze, in cui non si ha la benché minima idea di dove stia la simulazione e la realtà. Tutto il tempo sembra sprofondare nella malinconia del ricordo, di un’elaborazione quasi ossessiva, del rimuginamento interiore. I personaggi sono piatti, senza spessore, sono come carte da gioco o pezzi degli scacchi. Oggi diremmo che sono personaggi da videogame. Il protagonista dice più volte nel corso del film: «Conosco un gioco a cui non perdo mai», sfida gli avversari e puntualmente vince come se ci fosse un trucco o un qualcosa di preordinato. Se si può fare un paragone con la pittura vengono alla mente alcuni quadri di Delvaux. La villa perfetta, i giardini rigidi e ordinati in cui si muovono personaggi altrettanto rigidi, come se fossero esseri mitici. Non a caso il protagonista dice: «Vi siete messi a dar loro dei nomi un po’ a caso, credo … Pirro e Andromaca; Elena e Agamennone… Allora io ho detto che potevamo essere voi ed io, … o chiunque altro». Il classico allora in questo film oltre ai riferimenti nel testo costituisce un’impressionante cornice di imponente freddezza e apparente ordine delle relazioni. Le simmetrie dello stile classicista corrispondono ai compunti cerimoniali che regolano i rapporti tra le persone e che allo stesso tempo li astraggono verso una pura idealità in temporale. Il classico ha un carattere Platonico, astrattivo e in fondo derealizzante. Esso sottrae tutta la vicenda al divenire del mondo apparente e lo porta nell’Iperuranio del mondo dei modelli, anche se questa in tal modo finisce con il perdere di senso storico e con il mostrare tutta la sua sottaciuta assurdità.